C’è chi violenta una donna con le parole, quelle che non lasciano lividi visibili ma feriscono lo stesso, quelle che riducono il cuore in frantumi o quelle che calpestano la sua intelligenza. Intimidazioni, ricatti, denigrazioni sia private che pubbliche, controllo nelle scelte personali e nelle relazioni sociali (genitori, parenti, amici e colleghi): le armi a disposizione sono diverse ma tutte letali.
C’è chi violenta una donna tappandole la bocca con un pugno ogni volta che esprime un’opinione, aggredendola con calci e spinte, lesionandole la pelle con bruciature di sigarette o gettandole in faccia dell’acido.
C’è chi violenta una donna impedendole di leggere o di andare a scuola, perché così non può pensare e ribellarsi.
C’è chi violenta una donna tarpandole le ali ogni volta che esprime un desiderio, un sogno da realizzare, un obiettivo da raggiungere.
C’è chi violenta una donna impedendole l’autonomia economica costringendola, quindi, in una situazione di dipendenza.
C’è chi violenta una donna non permettendole di praticare il suo credo religioso o imponendole il proprio.
C’è chi violenta una donna minacciandola con telefonate, sms, emails, appostamenti sotto casa, nel suo posto di lavoro e in tutti i luoghi che lei frequenta.
C’è chi violenta una donna quando, dopo aver sporto denuncia, non viene creduta o le si rivolgono domande volte a farla vergognare, a sminuirla, a farla sentire in colpa, a farla sentire giudicata.
C’è chi violenta una donna quando le si dice: “hai voluto la parità?”, “te la sei cercata”, “se mi lasci ti rovino”, “se mi lasci ti tolgo i figli”, “se mi lasci t’ammazzo”, “se mi lasci m’ammazzo”.
C’è chi violenta una donna quando, prima di assumerla per un lavoro, le si chiede se è mamma o se ha intenzione di diventarlo.
La lotta contro la violenza sulle donne deve iniziare cambiando il sistema: la donna deve essere protetta e tutelata già dalle prime manifestazioni di rischio, interrompendo così il protrarsi di ripetuti atti violenti che, spesso, culminano nell’omicidio. Si tratta della vita di una persona, quindi il solo divieto di avvicinamento si è rivelato, finora, blando e inutile.
La lotta contro la violenza sulle donne deve iniziare non trascurando e non sminuendo i ripetuti campanelli d’allarme, anche da parte delle persone vicine alla vittima di soprusi. Il ricatto, le manipolazioni, le umiliazioni, le intimidazioni, la gelosia, il controllo, le intrusioni, l’isolamento, l’essere ignorata sono tutti segnali di abuso che devono essere intercettati e bloccati in tempo perché sintomi di una relazione non sana.
La lotta contro la violenza sulle donne deve iniziare già dai bambini molto piccoli, in famiglia, innanzitutto, a scuola, nello sport. Rispetto e amore: due parole che devono camminare insieme, non possono coesistere se, fin dalla più tenera età, non si considerano le “persone” ma si fa differenza fra maschio e femmina, bambino e bambina, uomo e donna. Non possono coesistere nemmeno se in casa il padre urla contro la madre, l’offende di continuo, la reputa inferiore, un oggetto, una sua proprietà. Non possono coesistere quando i bambini sentono battute a sfondo sessuale che hanno per oggetto le donne, quando ai maschi sono evitate le faccende domestiche perché sono “cose da femmine”.
Niente educa di più all’amore e al rispetto degli esempi positivi dei propri genitori, poi degli insegnanti, dei coach, ecc. I comportamenti violenti – e anche quelli pacifici – non sono innati, si acquisiscono in base alle esperienze vissute. Per questo, io alla giornata del 25 Novembre (Giornata contro la violenza sulle donne) voglio associare quella del 20 Novembre (Giornata Mondiale dei diritti dei bambini).
Perché tutti i bambini hanno il diritto di crescere imparando cos’è l’amore, il rispetto e la libertà.
M. Letizia Guagliardi