Sono trascorsi più di 4 anni dall’istituzione del Comune di Corigliano-Rossano (legge Regione Calabria n. 2 del 2 febbraio 2018) e più di tre dall’elezione del primo sindaco della nuova Città. Un lasso di tempo sufficiente che ci permette di poter esprimere un giudizio, sebbene parziale, sul processo di fusione. La sensazione è che l’esprit dei giorni del referendum consultivo (ottobre 2017) si sia dissolto cammin facendo e che quello che avrebbe dovuto essere un “grande esperimento” di partecipazione dal basso non sia stato adeguatamente supportato (se non in modo sporadico) in sede politico-culturale. Una grande occasione persa, dunque, resa evanescente dalla progressiva disattenzione degli organi di stampa, dei partiti, dei movimenti politici e del vasto mondo dell’associazionismo culturale, definitivamente surclassata prima dalla pandemia e adesso dai riflessi economici della guerra russo-ucraina sui destini delle famiglie e delle imprese. Certamente chi ha preso le redini del governo della Città avrebbe potuto fare di più, affiancando al lavoro della “Commissione statuto” un’azione di maggiore sensibilizzazione sui “contenuti” della fusione, magari calendarizzando appuntamenti dedicati allo scopo, coinvolgendo soggetti in grado di aggiungere competenze sia sul piano tecnico che culturale, mettendo il tema della fusione al centro della propria attività amministrativa così da renderlo immediatamente percepibile, all’occhio dell’opinione Lo Statuto (che non c’è … forse ancora per poco) e altre suggestioni sul futuro di Corigliano-Rossano pubblica, come “necessario” per il futuro della Città e della Sibaritide.La stessa “Commissione Statuto”, istituita per scrivere il nuovo testo fondamentale della Città, non ha fornito grande prova di coraggio – nel senso di cercare e mantenere costantemente aperto un rapporto costruttivo con la cittadinanza – rimanendo (almeno questa è la sensazione di chi scrive) progressivamente ostaggio degli equilibri politici interni al Consiglio comunale e includendo soggetti esperti, sicuramente qualificati nei loro rispettivi campi professionali, che però non hanno dato dimostrazione, fatta eccezione per qualche comparsa pubblica di rito, di essere veramente interessati al progetto di fusione tanto da investire tempo e costruire relazioni adeguate alla posta in gioco. Insomma, più apparenza che sostanza. La materia statutaria applicata ai comuni – lo sa bene chi se ne occupa in sede scientifica – è questione articolata e complessa, perché da essa dipende il modo come si intende organizzare il rapporto tra cittadino, istituzioni e territorio con lo sguardo rivolto al futuro e la consapevolezza razionale del passato. L’Italia ha vissuto una lunga stagione di riforme, iniziata negli anni ’90. Quella del Titolo V della Cost. (2001), in particolare, è stata quella che maggiormente ha inciso, tra alti e bassi, sulla tendenza a costruire una democrazia locale forte, grazie all’introduzione di strumenti come l’autonomia, la sussidiarietà, l’adeguatezza del governo in sede periferica, etc. A ciò ha fatto da contraltare l’affermazione della personalizzazione e della frammentazione della rappresentanza politica, due questioni in parte conseguenziali all’aspirazione di rafforzare a tutti i livelli di governo della società il momento della decisione. Quella che è stata definita, con una certa enfasi, la “stagione dei sindaci” (legge n. 81 del 1993), oggi incontra non poche riflessioni critiche – ancora, in verità, poco sistematizzate in sede politica e scientifica – che fanno pendant con l’espansione inarrestabile del filone populista e sovranista. Ciò rinvia alla necessità di concepire statuti idonei ad armonizzare le scelte sugli assetti organizzativi del singolo ente locale con i valori-principi della Costituzione e gli orientamenti europei. Statuti, perciò, espressivi di moduli di partecipazione funzionali alla maggiore complessità del governo locale, capaci di aiutare i cittadini a identificare i centri che effettivamente assumono le scelte e svolgono l’azione amministrativa, assumendosi le necessarie responsabilità. In assenza di un modello di statuto già adottato altrove in Italia per una fusione di ampia portata come quella sancita tra i comuni di Corigliano e Rossano, sbagliata si è rivelata la scelta di immaginare la costruzione di un percorso privo di un costante dialogo con l’esterno.
Se questo c’è stato, si è rivelato alquanto sporadico, poco coordinato, quasi sempre “filtrato” in sede politica al solo scopo di “dare l’impressione” all’opinione pubblica che un motore “costituente” fosse sempre a lavoro, quando invece, tranne qualche raro scambio di documenti redatti in sedi non istituzionali (e valorizzate giusto il tempo di una conferenza stampa) la realtà si è dimostrata diversa se si pensa a com’era stato annunciato – immediatamente dopo l’istituzione del Comune di Corigliano-Rossano (marzo 2018) – l’avvio della “stagione statutaria”. Lo stesso sito del Comune di Corigliano-Rossano, nella sezione “Commissione Statuto”, contiene poco di organico sui lavori redazionali: qualche intervista, le buone intenzioni di alcuni soggetti che hanno sentito il dovere di esprimere la propria posizione sul tema, qualche testo che rinvia alle osservazioni di movimenti politici e associazioni, le riflessioni di qualche studente volenteroso. Nulla, però, che dia contezza dello stato del procedimento in corso: verbali, bozze, documenti ufficiali, atti di convegni, etc.; quanto serve, insomma, a farsi un’idea del punto in cui ci troviamo. Oggi dello Statuto si sa ben poco (e quello che si sa filtra attraverso canali non ufficiali: l’esatto contrario del principio di trasparenza che deve informa l’agire pubblico). Filtrano notizie – questo sì – circolano veline, si riportano voci. La realtà è che, nonostante le buone intenzioni, che in teoria si riconoscono a tutti, si naviga a vista, bloccati dal timore – frutto di scarsa visione politica – che le scelte da fare sul futuro della Città potrebbero risultare sgradite (rectius: poco convenienti!) a chi vorrebbe intestarsi l’esito di questo processo al solo fine di perpetuare il (proprio giro di) potere. Opzione legittima, per carità, però, anche qui, contraria allo spirito dell’ammistrazione attiva. Il paragone regge abbastanza se prendiamo come esempio l’eterno dibattito sulla legge elettorale in Italia. Di fronte all’obiettivo di dotare il paese di una formula elettorale in grado di assicurare la governabilità senza mortificare la democrazia, si preferisce, sondaggi alla mano, “confezionare” soluzioni idonee soltanto a rafforzare il potere del singolo partito, del singolo movimento o della specifica coalizione dati come vincenti. Poi ci si lamenta che la partecipazione alla vita politica in generale e alle competizioni elettorali in particolare calano inesorabili (4 italiani su 10 disertano le urne!). Ai problemi di struttura si sommano i biechi calcoli di bottega. Una questione centrale nel (finto) dibattito sullo Statuto è quella del rapporto tra centro e periferia. Pare sia il vero nodo gordiano dell’intera partita. Partiamo da un dato. Il progressivo rafforzamento dei moduli di partecipazione introdotti a partire dalla legge n. 142 del 1990 ha determinato che il riconoscimento costituzionale dell’autonomia statutaria (art. 114, c. 2 Cost.) si traduce in una riserva in capo all’ente finalizzata ad accrescere le istanze federaliste. Ogni resistenza del centro diretta ad ostacolare l’accrescimento di forme ulteriori di tutela degli interessi e dei bisogni sparsi sul territorio, significa, pertanto, depotenziare la spinta propulsiva del processo di fusione. La stessa dimensione “orizzontale” della sussidiarietà, diretta a favorire le relazioni tra cittadini, spazi territoriali definiti e amministrazione, non può sussistere senza un atto di fiducia finalizzato a rafforzare modelli progressivi di democrazia. Tradurre in regole positive, statutariamente cristallizzate, il “quantum” di potere delegabile a ciò che potremmo definire “la rete della nuova cittadinanza amministrativa”, richiede qualcosa di più di una visione ottimistica e inevitabilmente generica della democrazia locale. È su questo difficile crinale, però, che si gioca il futuro della Città. Immaginare di calare dall’alto la forma di governo del Comune unico senza “fare i conti” con le dinamiche politiche, sociali, economiche e culturali che si muovono sul territorio – e in particolar modo negli spazi conclusi di alcune sue parti (quelle che reclamano la piccola manutenzione di una strada, dei giardini, di alcuni servizi alla persona, etc.) – significa aumentare la distanza tra soggetti (singoli e associati) e apparati di governo, legittimando, anche inconsapevolmente, modelli tradizionali di esercizio unilaterale delle funzioni pubbliche da parte dell’amministrazione. Al netto di letture ideologiche o (peggio) di “parte”, è chiaro che, specie nella fase inziale, quando cioè si tratta di costruire una nuova realtà complessa ed eterogenea, la formula “centralistica” potrà sembrare quella più confacente. Il dibattito sul (nuovo) regionalismo in Italia, per esempio, non ignora la necessità di ricondurre al “centro” alcune materie (specie tra quelle a “legislazione concorrente”). Un eccesso di decentramento, invece, modulabile attraverso procedure elettive più o meno marcate, può alimentare – e potenzialmente esasperare – logiche di micropotere periferico, magari interconnesse con figure politiche dai tratti “identitari” marcati, alimentare l’occupazione politica di porzioni di territorio (al limite della illegalità) e determinare contrapposizioni disgregative e perfino devianti socialmente. Ecco perché, il tema dei “municipi”, come vengono definiti in una bozza recente gli “agglomerati urbani di storica e recente formazione”, avrebbe dovuto essere “portato in piazza”, discusso pubblicamente, magari all’interno di assemblee aperte alla partecipazione e guidate dalla Commissione Statuto; insomma, deliberato dal basso. Questo avrebbe dato senso ad un processo finora immiserito culturalmente e “strozzato” politicamente. La soluzione ottimale, la proposta più razionale a parere di chi scrive, non può che stare al “centro”, a cavallo tra legittime aspirazioni ad accorciare le distanze tra il centro e le periferie e la possibilità che soggetti investiti di una delega specifica, frutto di procedure elettive da espletarsi in concomitanza delle elezioni per il rinnovo del Consiglio comunale, possano adeguatamente rappresentare le differenti tipologie di bisogni nelle sedi dei processi deliberativi. Ma senza un continuo lavoro culturale, quasi giornaliero, di supporto al processo formale di scrittura delle regole, il rischio che la fusione fallisca potrebbe essere scontato. Lo Statuto, allora, alla fine arriverà. Forse sarà votato “a maggioranza”, non all’unanimità, ma la sensazione che una grande occasione di partecipazione sia stata sprecata resterà nella memoria di molti.
Prof. Gianfranco Macrì – Università degli Studi di Salerno