Una nave dei veleni, stavolta reale e non ipotetica, era sul punto di approdare otto anni fa sulle coste calabresi, e in particolare nella provincia di Cosenza.
Pure una carovana di camion
A ricostruire per filo e per segno questa inquietante vicenda è stata la Dda di Catanzaro che, nel 2014, partendo da una storia apparentemente ordinaria di estorsioni e usure, si è imbattuta nel piano ambizioso che un gruppo di affiliati ai clan cosentini coltivava in combutta con un faccendiere milanese. In tal senso, la nave rappresentava solo un assaggio, perché l’intenzione del gruppo era quella di far confluire nel Cosentino altri quintali di amianto e scorie radioattive, provenienti dal Nord a bordo di una carovana di camion. Era tutto pronto, ma proprio sul più brutto l’affare è saltato. Bene, anzi male. Perché il sospetto è che la manovra non andata in porto a Cosenza, sia riuscita in precedenza in un altro angolo di Calabria, più precisamente a Crotone. Il tutto, manco a dirlo, a maggior gloria delle cosche di quel comprensorio.
La Tequila bum bum
Dicevamo come il protagonista in negativo di questa storia sia il faccendiere milanese. È con lui che a gennaio del 2014 il gruppo criminale fissa un primo incontro conoscitivo, circostanza che in effetti avviene in un ristorante di Paola, sulla costa tirrenica. L’uomo arriva, chiude la trattativa a tavola e poi torna a casa in aereo, tutto nel giro di un’ora. Come un vero uomo d’affari. Le intercettazioni telefoniche e ambientali svelano quasi in tempo reale il contenuto di quel summit. L’accordo prevede di dirottare in Calabria carichi di rifiuti «leciti (per lo più percolato) e altri «illeciti». Sono gli stessi boss a definirli così – «leciti e illeciti» – mostrandosi attratti soprattutto dal secondo tipo di business perché il guadagno per loro equivale a «settanta, ottantamila euro a camion» che in alcuni casi lievitano fino a «duecento, duecentocinquantamila a camion». È «roba pericolosa» anche per loro stessa ammissione. E in un dialogo in cui pregustano già i futuri incassi, la ribattezzano «Tequila bum bum».
La combriccola dei rifiuti
Del resto, il mediatore lombardo ha dato loro ampie garanzie: a lui andrà il quindici per cento della somma, e il resto finisce tutto nelle casse della cosca. Il negoziato sembra andato a buon fine, e il faccendiere dà appuntamento «agli amici calabresi» a febbraio, stavolta per un meeting all’ombra della Madonnina e con una puntatina anche in Svizzera, dove ha sede la sua base operativa. È in quel frangente che gli investigatori riescono a risalire alla sua identità. Ufficialmente, è titolare di una ditta che si occupa di lavorazione dei minerali e dei metalli ferrosi, ma sempre le intercettazioni rivelano come la sua vera occupazione sia quella di sovrintendere a una combriccola di imprenditori avidi e in cerca di scorciatoie per liberarsi dei rifiuti speciali prodotti dalle loro aziende. È una filiera poco rassicurante che partendo dalla Lombardia attraversa la penisola e arriva finanche a Dubai. Il faccendiere parla al telefono con ognuno dei suoi soci dislocati fra Pescara, Latina, Bari e Milano, in alcuni casi li incontra personalmente e, tra un affare e l’altro, organizza la spedizione calabrese.
A Crotone è già successo
A marzo, però, si registra un cambio di strategia. Il faccendiere vorrebbe che i primi carichi inviati a Cosenza siano di “semplice” percolato, perché proprio in quei giorni le forze dell’ordine hanno alzato il tiro nella lotta ai traffici e allo smaltimento illecito. Non ritiene sia il momento di trafficare in scorie o «cose violente», come le chiamano gli amici di giù. «Ci sono troppi casini» manda a dire ai suoi partner cosentini, ma ormai loro vogliono le “Tequila Bum Bum”, soltanto quelle, e quindi lo redarguiscono: «Quando sei venuto giù dicevi che le cose a Crotone le mandavi, e mo’ ti spaventi a farle venire a Cosenza?».
La ritirata svizzera
A Crotone le mandavi, e per una frittata che si ritiene ormai fatta, ce n’è un’altra che, per fortuna, non arriverà mai in tavola. A maggio, infatti, il faccendiere convoca i suoi soci ‘ndranghetisti in un bar di Milano e mostra loro un piccolo oggetto rettangolare che ha rinvenuto sotto la propria auto. È un localizzatore gps, segno che qualcuno lo segue, magari lo intercetta pure. L’uomo fiuta il pericolo e si tira fuori. Comunica anche di volersi rifugiare in Svizzera perché «se succede qualcosa lì non possono fare un cazzo», e in effetti di lì a poco sposterà la propria residenza a Bellinzona.
Rotta verso la Turchia
Per i cosentini è un brutto colpo. Avevano già avviato le pratiche «per il consorzio» e individuato il sito per accogliere i rifiuti che, da alcuni frammenti di dialogo intercettati, gli investigatori ritengono dovesse sorgere nella zona di Montalto Uffugo. Il milanese propone loro di trovare un altro referente, perché lui ormai è fuori dai giochi. «Che fai, lasci la patata bollente a noi?». L’affare è ufficialmente saltato, e al ritorno in Calabria l’emissario del gruppo criminale lo comunica ufficialmente ai suoi complici. È lì che salta fuori il discorso dell’imbarcazione carica di veleni destinata alla Calabria ma dirottata in extremis su altre sponde: «Gli ho detto scusa, ma la nave che avevi sotto, piena di rifiuti tossici, che cazzo di fine ha fatto?… l’ho mandata in Turchia… E in culo a tua madre la dovevi mandare da me e l’hai mandata in Turchia?… Là erano i soldi grandi».
«Gli amici calabresi non mi piacciono»
La Legge non punisce le intenzioni di reato, ragion per cui al naufragio dell’operazione coincide quello dell’inchiesta. Non è chiaro se il gruppo di imprenditori abbia poi realizzato altrove quel traffico “velenoso”, l’unica certezza è che gli atti che documentano quella tentativo abortito sono riemersi dalla polvere del tempo per confluire nella nuova inchiesta della Dda di Catanzaro sulla confederazione dei clan di Cosenza che lo scorso primo settembre ha portato all’arresto di centonovanta persone. Le attività d’indagine sul capitolo rifiuti tossici si chiudono con un’intercettazione, l’ultima eseguita a carico del faccendiere milanese che suona un po’ come il suo commiato personale. «Gli amici calabresi – spiega a una sua socia in affari il 24 giugno del 2014 – quei posti lì, mi devono stare solo lontani. Non per qualcosa, è gente che… primo: non mi piace!… lavorare con quella gente non va… non mi piace! Punto». (fonte lacnews24.it – Marco Cribari)