Il libro di Badolati racconta una Calabria che va oltre ogni stereotipo. Oltre alla ‘ndrangheta c’è dell’altro, una Calabria delle meraviglie, quella che prevale nel suo scritto e deve prevalere nella realtà quotidiana.
La genesi del libro viene spiegata dallo stesso autore durante la serata di presentazione, tenutasi a Cariati lo scorso 27 dicembre: «Questo libro nasce di fronte al cadavere bruciato di un bambino di 3 anni che si chiamava Cocò Campolongo, il quale era stato affidato al nonno, Giuseppe Iannicelli, pregiudicato in senso letterale, condannato con sentenza definitiva, a cui non era permesso di guidare per revoca della patente dopo aver scontato la sentenza per spaccio di droga. Egli si era trovato un’amante momentanea, una donna marocchina. Pensando erroneamente che l’innocenza del piccolo e della donna potessero fermare la furia omicida di cui sono capaci gli uomini della criminalità organizzata, continuava a spacciare droga con nipote e donna al seguito. Iannicelli nonostante l’obbligo che vige nella Sibaritide di dar conto all’unione delle due criminalità – nomade e tradizionale – era forte della ”regola” (inesistente) secondo cui non si uccidono donne e bambini. Nel 2014, una mattina di gennaio, a bordo di una macchina con donna accanto e nipote dietro è stato fermato da due persone che conosceva, dietro alle quali si celavano i due killer che hanno ucciso con un colpo alla testa gli adulti e poi il bambino, quest’ultimo a distanza ravvicinata dopo averlo strappato dall’angolino che si era ritagliato, riparandosi con le braccia. Rimessi i cadaveri in macchina, vengono bruciati».
Badolati riporta poi alla luce il grande evento storico che ha seguito la vicenda: «Il vescovo di Cassano allo Ionio, Nunzio Tarantino, nel 2014, anno della tragedia, era il segretario della CEI; chiama il Papa Bergoglio e gli dice ciò che era successo. I cadaveri ritrovati giovedì, sono la seconda cosa che viene espressa dal Papa in mondo visione, all’Angelus di domenica. La mia regione, la mia terra, la nostra terra, finisce su tutti i giornali del mondo: ”Ucciso e bruciato insieme ad una donna e al nonno, un bambino di 3 anni”»
«Il giugno successivo Bergoglio si reca a giugno nella piana di Sibari, sa cosa significa l’uccisione di bambini perché nella sua terra c’è stata una dittatura comandata da un generale sanguinario – Jorge Rafael Videla – che prendeva i bambini alle famiglie contrarie al regime e le affidava a quelle a favore, uccidendo i genitori naturali. 250.000 cuori che palpitano nella piana di Sibari. Il Papa anziché pronunciare il discorso prestabilito, dice una cosa che fa passare la nostra regione alla storia, perché fra 200 anni non si dirà che quella è la terra in cui è stato ammazzato un bambino, si dirà che quella è la terra in cui il Papa, il capo della Chiesa Cattolica Apostolica romana, il primo nei secoli dei secoli, ha scomunicato la Mafia: ”Chi adora il male è contro Dio, i mafiosi sono scomunicati, non può coincidere l’amore per Dio con la violenza della mafia”. Il messaggio non è lanciato solo a quelle 250mila persone ma anche ai suoi referenti religiosi, ai tanti preti che non hanno avuto coraggio, a tutti quelli che hanno preferito essere Don Abbondio e non Fra Cristoforo, per citare Manzoni. Matrimoni, battesimi e comparaggi per aumentare la forza e il potere dei mafiosi, non devono essere fatti».
«Il Papa straniero aveva ridato alla mia terra finalmente uno slancio, una possibilità di riscatto, scomunicando le mafie in Calabria, nel luogo in cui era stato ammazzato un bambino. Ecco, il martirio di quel bambino è servito a qualcosa e anche io dovevo fare qualche cosa. Avevo attraversato la Calabria per tanti tanti anni, raccontando di faide e guerre di mafie, di processi, di estorsioni e tracotanze di ogni genere, eppure, guardandomi intorno lì in quel luogo dove il Papa aveva pronunciato delle frasi importantissime scorgevo qualcosa di antico, energie vitali che risalivano fino a me».
L’intento dell’autore risulta quindi riscattare la Calabria e la gente onesta che l’ha abitata e continua a farlo: «Così mi sono chiesto cosa ci fosse prima in questi luoghi. Lì c’era una città straordinaria, Thurii, che era stata designata dal più grande architetto urbanista dell’antichità ellenica, Ippodamo di Mileto, per ordine di Pericle. Forse qui è morto Erodoto, l’uomo che aveva inventato la storia. Pochi chilometri più in là, Rossano con il codice purpureo. Queste meraviglie non potevano essere scambiate con la violenza della gente che aveva sporcato il nome di questi paesi». E infatti, la Calabria delle meraviglie sono le conoscenze che devono sapere gli altri, l’equazione perfetta che ha applicato in ogni luogo in cui era stato. E per divulgarle agli altri, dobbiamo esserne conoscitori noi calabresi.
Ma allora, nella Calabria delle Meraviglie non c’è ‘ndrangheta? «E’ vero che c’è la ‘ndrangheta in Calabria, ma è vera anche un’altra cosa: gli uomini che hanno combattuto e combattono la ‘ndrangheta oggi non solo in Calabria ma nel mondo, sono calabresi. Il giudice più famoso al mondo nella lotta alla ‘ndrangheta è calabrese e vive a Gerace, nella locride. Esiste quindi la ‘ndrangheta ma siamo noi che l’abbiamo combattuta e la stiamo combattendo. Noi non abbiamo nulla di cui vergognarci».
Proprio a proposito di vergogna, ci lega uno strano amore alla nostra terra, c’è un senso di subordinazione rispetto alle altre regioni che non hanno il nostro accento ma un linguaggio considerato internazionale. Anche questo nodo viene sciolto dall’autore: «Prendiamo i Veneti, che non erano stati come noi, non avevano nascosto la loro storia, non l’aveva piegata alle ragioni dei vincitori; avevano avuto infatti Goldoni che la loro lingua l’aveva inserita nel teatro, rendendola lingua nazionale. Così come i Piemontesi, Liguri, Toscani… Il loro prestigio linguistico trova derivazione da intelligente valorizzazione storico-sociale della propria terra, dalla conoscenza delle proprie note positive, che non li faceva e non li fa vergognare di utilizzare tratti caratterizzanti».
Se ci vergogniamo del dialetto, ci vergogniamo quindi delle nostre origini. Abbiamo nascosto il dialetto poiché lingua degli ultimi. «Ma nel dialetto – spiega Badolati – c’è il segreto, c’è la forza, c’è la saggezza millenaria accumulata nella sofferenza, nelle dominazioni, quella poca gioia seppur sempre presente, di uomini che hanno vissuto e sono morti in questa terra e sono stati colpevolmente dimenticati, ai quali abbiamo sputato rimuovendo dalla nostra vita quotidiana il dialetto o criminalizzandolo».
L’autore non è solo uno scrittore, ci dipinge un quadro dai colori contrastanti, ed è proprio comprendendo il contrasto che tutto appare chiaro, perché niente e nessuno viene escluso: «I nostri antenati erano povera gente che veniva sfruttata nelle campagne, gente che rimaneva ignorante per generazioni e non aveva diritti. I nobili ingravidavano le mogli dei contadini e nascevano i bastardi, una delle categorie più tremende della nostra storia perché non eri nessuno nella tua famiglia naturale contadina in quanto sapevano che eri figlio di un nobile, una vergogna per la famiglia del nobile che aveva colpevolmente e dolosamente ingravidato la contadina, tua madre. Di fronte a loro dobbiamo inchinarci. Il sacrificio di quella gente, oggi, permette noi di avere una laurea, di discutere, di leggere e di studiare».
Il dialetto spiega in poche parole qualcosa di intraducibile in italiano senza perderne appunto l’essenza e pur avendo un numero inquantificabile di termini a disposizione. E Badolati ci fa regalo di una delle sue tante esperienze personali per meglio sintetizzare questa nozione: «Mio padre ha sempre parlato in italiano. Nel 2016 viene ucciso un vecchio avvocato, una brava persona. Gli chiedo cosa ne pensa, e mio padre che non mi ha mai parlato in italiano, mi risponde in dialetto: ”Se ci fu nu tronu, ci fu nu lampu”, cioè: ”Se c’è stato un tuono, c’è stato un fulmine”. Non avrebbe potuto dirlo meglio».
E noi che non siamo scrittori, non siamo giudici, non siamo amministratori, cosa possiamo fare per la Calabria? Badolati ha scritto il libro dopo l’intervento del Papa, noi lo leggiamo e sentiamo la responsabilità di agire. Di cosa ha bisogno la Calabria? Egli risponde a questa domanda: «La Calabria ha bisogno di normalità. Non è straordinario essere ricevuti in un ospedale ed essere curati immediatamente senza restare 8/9 ore in attesa di una diagnosi e poi buttati 5-6 giorni nell’ astanteria di un pronto soccorso perché impossibilitati ad andare in un reparto, se non siamo nessuno si intende. Se poi siamo qualcuno scende il primario con tutto il personale, trova un posto e ci sistema. Siccome molti ancora non sono nessuno, o meglio, siccome tutti dovremmo essere uguali secondo un principio della nostra Costituzione, abbiamo bisogno di normalità. Perché non possiamo raggiungere le aree della nostra regione seguendo percorsi e strade normali, con treni che collegano in orari normali? Perché il nostro grande patrimonio deve essere disperso, sminuito, snobbato? Ovunque scaviate, 20 cm di terra trovate qualcosa; una conchiglia, tracce fenice, tracce micenee… C’è tutto e tutto viene lasciato. Io voglio vivere in una terra normale in cui si possa aprire un’azienda senza essere rincorsi da mafiosi che non lavorano e che pretendono che il tuo sudore finisca ad arricchirle. In una terra normale chi fa il proprio dovere non è un eroe ma semplicemente una persona che fa il proprio dovere».
Inevitabile poi il collegamento con la situazione sanitaria Calabrese e nella fattispecie, con quella di Cariati, dove i atti di resistenza per fortuna, sono tangibili: «Ci hanno raccontato che avrebbero chiuso gli ospedali per costruirne di più grandi, che avremmo trovato ospitalità in strutture ove non sarebbe mancato niente e ci hanno distrutto la sanità di prossimità, per mezzo della quale venivamo salvati dopodiché si pensava ad essere trasferiti in un’altra struttura. Quando c’è notizia di un reparto che riesce a rimanere aperto, con tanto di politici soddisfatti, c’è solo una cosa da dire: ”Vi dovete vergognare. Non avete ottenuto niente, siamo sotto la normalità”».
Dunque, il libro di Badolati è un invito alla resistenza e alla ribellione, sentimenti che abbiamo dentro e che vanno alimentati ogni giorno. Dopo la storia, i dipinti, le parole, si passa al cinema: l’immagine con cui concludiamo è una di Anna Magnani in ”Roma città aperta”, in cui recita la parte di una verace donna calabrese, Teresa Gullace. Badolati spiega che Teresa spezza la catena di soldati tedeschi posti davanti a sé, per raggiungere il marito e baciarlo per sempre, venendo falciata dai (falsi) colpi. Al termine delle riprese, Anna è a terra e non si alza, tant’è che il regista Rossellini la raggiunge preoccupato. La Magnani piangeva, sconvolta e immedesimata nel coraggio della calabrese Gullace. Teresa voleva strappare il marito dalla morte; noi dobbiamo strappare la Calabria dalla morte, senza pensare alle pallottole, senza avere paura della forte schiera di illegalità che è una minoranza, e che rischia – tramite atti di necessaria resistenza e ribellione – di estinguersi.
Quando arriva a farci visita il quesito: «Partire o restare?» deve essere forte la risposta: «Restare e cambiare».
«Penso alle donne calabresi – conclude Badolati – come forti donne con le schiene spezzate a raccogliere gli ulivi, a coltivare gli ortaggi, a patire la fame strappando un pezzettino di pane per i figli, alle prese con influenze senza penicillina, nella tragicità della natura delle nostre terre piene di terremoti e dissesti idrogeologici. Penso al coraggio di queste donne dimenticate che hanno consentito a noi di essere oggi quello che siamo. Forti come tempeste e leggere come farfalle».