Raccolgo di buon grado l’invito dell’ottimo Direttore Lauria ad esprimere il mio opinamento sul femminicidio che, come di costume, subisce ora la distorta interpretazione dagli opposti estremisti i quali, maggiormente, ruggiscono sui social ma che, al di là dell’impatto emotivo, rappresentano solo se stessi e non il comune pensare dell’italiano, per costume tradizionalmente moderato e riflessivo. Guai a confonderlo con l’omicidio tout court: non è un fatto isolato, una pulsione improvvisa, ma la punizione a un assurdo canone di condotta verso quella donna che osa ribellarsi ad una posizione di subordinazione. Ed è la violazione a questa regola di comportamento che rende la donna uccidibile, sicché il femminicidio non è un delitto che accade all’improvviso, ma costituisce l’ultimo atto all’interno di un ciclo della violenza che inizia con le blandizie e prosegue con le minacce e le percosse sino a giungere all’omicidio. La donna viene uccisa in quanto tale, in quanto non si è piegata al controllo del (super)uomo, in quanto ha violato il principio del primato maschile. Ed è medioevo: sarebbe piaciuto ad alcuni maschietti che la donna permanesse in una condizione di subalternità, ma il tempo ha sconfitto questo loro primordiale desiderio. Senza voler andare lontano, basterà osservare che il settore penale del locale Tribunale – e dalla scorsa settimana anche quello civile – vengono retti da un Presidente donna, che donna è il Presidente così come lo sono anche il segretario ed il tesoriere del mio ordine professionale, nel mentre, poco più di un secolo fa, Lidia Poet non veniva ad essere iscritta nell’albo degli avvocati “perché lo Stato, nella sua sociale e politica amministrazione e l’amministrazione di quanto attiene alla cosa pubblica hanno avuto e mantengono tutt’ora un carattere virile prevalente, così manifestamente decisivo che le donne non vi possono avere una parte attiva troppo estesa”. Ed è questa sconfitta che la Storia ha di poi inflitto all’idea di uomo leader solo per investitura sessista, che alimenta il ciclo della prevaricazione sino a sfociare nella violenza misogina di cui il femminicidio costituisce la forma più estrema. Non cadiamo però in errore: Non è stato codificato un reato che punisca direttamente l’uccisione di una donna: la morte volontariamente indotta non porta ad una differenza di trattamento sanzionatorio tra l’uccisione riservata a un uomo e quella riservata a una donna. In entrambi i casi, la persona che commette il crimine viene punita nell’identico modo. Le modifiche al codice penale, per tale delitto, si traducono con l’inserimento di alcune aggravanti in precedenza non contemplate. Ed in franchezza di norme poste a presidio di contesti maggiormente vulnerabili se ne sentiva davvero il bisogno, dacché sempre più spesso apprendiamo di situazioni che purtroppo sfociano nell’assassinio di una donna o in altre forme di violenza commesse da coniugi, compagni, ex coniugi o ex compagni che non accettano la fine di un rapporto, per cui il termine “legge sul femminicidio” è improprio risultando introdotte norme che hanno lo scopo di combattere non solo la violenza sulle donne, ma più in generale a contrastare la violenza di genere in quanto tale. Del resto, non si qualifica per femminicidio un caso in cui una donna venga uccisa durante una rapina, ma è femminicida chi, sempre esemplificativamente disquisendo, uccida compiendo così l’atto finale di un ciclo di violenza contro un essere di genere femminile che, in violazione di uno stereotipo socio-culturale falsamente patriarcale, osi pretendere di rivendicare il suo ruolo di soggetto di diritti, negando, per sé ed a giusta ragione, di essere relegata in quella posizione di subordinazione che la renderebbe discriminabile. E per questo deve essere maggiormente punito. Ma sempre al termine di un giusto processo, dove si dimostri la sua colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, con una decisione che provenga da un imparziale Tribunale della Repubblica, e non in via preventiva da un forum di opinionisti social.