Editoriale: La finta democrazia e l’ombra delle oligarchie

Viviamo davvero in una democrazia? La domanda, apparentemente retorica, è più attuale che mai. Guardando con attenzione al nostro sistema politico, i dubbi emergono in modo prepotente, costringendoci a riflettere sulla natura e la qualità della nostra democrazia. La democrazia, nel suo concetto più puro, dovrebbe essere il governo del popolo, per il popolo e con il popolo. Eppure, la realtà che si palesa davanti ai nostri occhi sembra dipingere un quadro diverso, dove la voce del singolo leader prevale su ogni altra, trasformando il pluralismo politico in un monologo di potere. Dal presidente del Consiglio dei Ministri al più modesto sindaco, il copione sembra ripetersi in modo inquietante: basta un cenno, un’indicazione dall’alto, e tutto l’apparato politico si allinea in modo ossequioso, quasi meccanico.

Questo conformismo dilagante non è solo un problema di leadership forte o di personalità carismatiche, ma riflette un problema strutturale della nostra società, dove il dissenso viene non solo marginalizzato, ma attivamente scoraggiato. Chiunque osi mettere in discussione l’ordine stabilito viene rapidamente isolato, trattato come un elemento estraneo e scomodo, un corpo da espellere per mantenere l’armonia di facciata.

Ma cosa resta, allora, della democrazia? Quando le decisioni politiche vengono prese senza il supporto reale dei programmi elettorali, quando le promesse fatte agli elettori diventano carta straccia di fronte alla convenienza del momento, ci troviamo di fronte a una democrazia solo di nome, svuotata del suo significato più profondo. La realtà è che ci stiamo avvicinando pericolosamente a un sistema oligarchico, dove pochi, i cosiddetti “potenti di turno”, decidono per tutti, lasciando al popolo solo l’illusione del potere.

E in questo contesto, che ruolo hanno gli intellettuali, i media, la scuola, la famiglia, la Chiesa? Dovrebbero essere i guardiani della democrazia, gli argini contro il conformismo e l’appiattimento del pensiero, eppure troppo spesso li vediamo allinearsi a loro volta, seguendo la corrente piuttosto che interrogarla. Le strutture piramidali che si sono consolidate nel tempo sono diventate il principale ostacolo a una reale democrazia partecipativa, trasformando la voce del popolo in un sussurro che si perde nei corridoi del potere.

Forse è giunto il momento di ripensare il nostro sistema elettorale. Un ritorno al proporzionale potrebbe essere un primo passo per ridare voce a tutte le istanze della società, permettendo a ogni voto di avere il suo peso e la sua dignità. Ma non basta. Serve una riflessione più profonda sul diritto di voto stesso: siamo sicuri che tutti gli elettori abbiano le competenze necessarie per comprendere appieno le dinamiche della società e del mondo politico? Forse no, e in questo caso, sarebbe il caso di considerare l’idea di un sistema dove il voto di chi dimostra una maggiore consapevolezza e conoscenza dei fatti conti di più. Una proposta radicale, senza dubbio, ma forse necessaria in un contesto dove il voto di scambio e il conformismo rischiano di compromettere la stessa sopravvivenza della democrazia. Se davvero vogliamo salvare la nostra democrazia, dobbiamo smettere di accettare passivamente un sistema che premia la mediocrità e il conformismo, e iniziare a chiedere di più, a pretendere di più dai nostri leader, dai nostri intellettuali, e da noi stessi. La democrazia è un bene prezioso, ma anche fragile, e se non lo difendiamo con tutte le nostre forze, rischiamo di perderlo per sempre.

Matteo Lauria – Direttore I&C

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