Basti pensare che in Italia, dove già lavora meno di una donna su due, sette posti su dieci persi nel 2020 sono stati di donne, le quali, per inciso, in media guadagnano il 15% in meno dei loro colleghi. Le donne sono anche quelle su cui ricade il 76,2% dei lavori di cura: 5,05 ore al giorno contro un’ora e 48 degli uomini. E forse anche per questo le donne faticano a far carriera: fra le manager sono il 25% e di queste solo il 5% raggiunge il ruolo di amministratrice delegata. Stessa situazione nel mondo accademico: solo il 23% dei professori ordinari è donna e gli atenei italiani contano solo 7 rettrici su 84.
In politica poi, in 75 anni, le donne al governo sono state appena il 6,5% e il nuovo esecutivo non è stato il punto di svolta che ci si attendeva, con 8 ministre su 23 (35%).
Che poi questi numeri siano un problema non solo per una questione di principio o di pari opportunità, ma anche e soprattutto di crescita del Paese, è stato dimostrato da studi di ogni genere: da quelli di Banca d’Italia – che già nel 2013 indicavano come se il tasso di occupazione femminile fosse aumentato dall’allora 46% al 60%, il Pil italiano sarebbe cresciuto del 7% – , a quelli dell’Università Bocconi e Consob che avevano sottolineato una correlazione fra un numero congruo di donne nei board e il miglioramento di indicatori di redditività delle aziende.
In un Paese che ha chiuso il 2020 con un calo del Pil dell’8,9%, non ci si può più permettere di tenere fuori dal mondo del lavoro metà dei talenti. Secondo alcune stime, per ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si possono creare fino a 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi. Posti che con ogni probabilità andrebbero a occupare altre donne.
Ma per fare ciò erano necessarie tutta una serie di linee di investimento che supportassero la possibilità di “liberare” il lavoro femminile, dalla creazione di infrastrutture sociali, soprattutto nidi di infanzia, la cui voce di capitolo di spese è invece stata drasticamente ridotta, alla necessità di una riforma integrata sociosanitaria dell’area della non autosufficienza, invocata, non da oggi, dal Terzo Settore e dal “Network della non autosufficienza”. Qui erano necessari almeno 7,5 mld per il periodo 2022/26; ne sono stati invece previsti in tutto solo 1,5 mld, (per il sostegno alle persone fragili, per prevenire ricoveri istituzionali, per la “Vita indipendente”, per l’Housing temporaneo).
Cospicua decurtazione anche per quanto riguarda la linea di intervento dedicata in senso più stretto alla creazione e al mantenimento dei posti di lavoro a vantaggio per l’occupazione al Sud e per le nuove assunzioni di giovani e donne. Per il sostegno all’imprenditoria femminile – solo 0,4 Mld – assolutamente insufficienti secondo più pareri, così come nessuna misura è stata adottata per ridurre il gap formativo nell’ambito STEM (l’insieme delle discipline scientifico-tecnologiche, e i relativi campi di studio), poiché era stato fatto presente che gli ingenti finanziamenti destinati alla transizione ecologica e digitalizzazione avrebbero comportato un rafforzamento dell’occupazione maschile, non di quella femminile, molto meno presente in detti ambiti.
Tutte misure di cui il Sud avrebbe avuto fortissimamente bisogno, per provare finalmente ad attuare quella ripartenza che è fondamentale per tutto il sistema Paese.
Se parliamo ancora di treni che passano e sui quali in particolare i comuni meridionali faticano a salire – causa la scarsa lungimiranza politica del passato e del presente – vi è anche la previsione di risorse nella legge di bilancio per l’assunzione a tempo indeterminato di assistenti sociali volti a garantire livelli essenziali. Uno dei criteri per accedere a ciò però è rappresentato da un criterio preesistente a netto svantaggio dei comuni meridionali, il rapporto di già almeno di 1 assistente sociale ogni 6.500 abitanti. Criterio che chiaramente lascia fuori una larga fetta di comuni del Sud che da sempre si distinguono sicuramente non per virtuosismi, o comunque non in questo campo, dove ad esempio in Calabria, a distanza di venti anni dall’approvazione della legge n° 328 del 2000, ancora fatica a decollare l’avvio della riforma welfare.
Le donne sono oltre il 50% della popolazione e non una marginalità da includere, l’empowerment e la valorizzazione dei talenti e delle competenze delle donne avvantaggerebbero ancora di più una società e un’economia che pensa di poter continuare con le medesime logiche e politiche e non ha capito invece che la pandemia ha posto tutti di fronte a un nuovo linguaggio socioeconomico non più differibile.
È necessario un cambio di rotta radicale nel ripensare lo sviluppo dei nostri sistemi economici, è necessaria più attenzione e più visione di insieme, più capacità di intercettare i reali bisogni di una società che ha dimostrato ancora una volta di fare prevalentemente leva sul lavoro sotterraneo di cura delle donne e che allo stesso tempo le ha di nuovo violentemente estromesse dal mercato del lavoro. Non ci si può più girare dall’altra parte, non si possono più ignorare le legittime esigenze di più del 50% della popolazione; ci sono oggi – pur se non consistenti come si sperava- dei fondi sulle politiche di genere nel Recovery Fund che devono essere assolutamente intercettati, con una forte sinergia istituzionale, per ridare soprattutto nei nostri territori, una speranza concreta a tanti giovani, donne e non e a tante famiglie. I consiglieri comunali Alessia Alboresi – Cesare Sapia
comunicato stampa