Che Gemma di libro! L’arte della Gioia, la rocambolesca esistenza di Goliarda Sapienza

Una rubrica sui libri. Perché? In questo nostro tempo veloce e senza pause, rallentare è l’unica azione possibile per riappropriarci della nostra anima. E lo facciamo con Gemma, docente e grande appassionata di libri di Corigliano-Rossano, che ci aiuta con le sue letture a sgretolare qualche luogo comune del mondo culturale, raccontando in poche parole, ogni domenica, che cosa meriti almeno un’occhiata in libreria. Non perdiamoci i suoi consigli!

L’arte del dubbio
Se non avete ancora visto la serie di e con V. Golino uscita da poco al cinema in due puntate, io provo a consigliarvi di leggere prima “L’arte della gioia” di Goliarda Sapienza, nata il 10 maggio di un secolo fa a Catania (!), nel quartiere San Berillo (la “civita” povera e malfamata di quegli anni). In questo più che in altri casi priorità al romanzo, perché non è semplice e il rischio è che, digerita la trama, si rinunci al tomo. Che merita proprio per la sua complessità (quella che dovremmo ritrovare). Intriso com’è di tutti i temi dell’inconscio collettivo junghiano, può sconvolgere o quantomeno risultare “urticante”, pure nella forma, perché nei dialoghi prevale la sintassi siciliana se non il dialetto, si passa dallo stile aulico al registro popolare, si alternano prima e terza persona (sdoppiamento), le descrizioni dei personaggi sono approfondite e creano quelli che potrebbero essere mal sopportati come “punti morti”. «Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola morte, esattamente come mentiva la parola amore. Mentivano molte parole, mentivano quasi tutte. Ecco cosa dovevo fare: studiare le parole esattamente come si studiano le piante, gli animali… E poi ripulirle dalla muffa, liberandole dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle nuove, e soprattutto scartare per non servirsi più di quelle che l’uso quotidiano adopera con maggior frequenza, le più marce, come: sublime, dovere, tradizione, abnegazione, umiltà, anima, pudore, cuore, eroismo, sentimento, pietà, sacrificio, rassegnazione». Una causa partecipata dalla scrittrice e poi da Modesta.
Io mi sono presa il tempo di rileggere il libro e di “perdermi” in una ricerca sull’autrice e le sue estenuanti vicende editoriali. E mi dilungherò nel condividere con voi quanto scoperto e adorato.
L’opera della Sapienza non può prescindere dal suo vissuto. Persino e soprattutto dall’infanzia, colma di “pesi”. Figlia dell’avvocato “dei poveri” socialista e donnaiolo Peppino Sapienza e della famosa sindacalista lombarda Maria Giudice, nasce unica figlia di genitori ormai quarantenni, imbarazzanti ma brillanti, non sposati, e ha già dieci fratelli (sette di madre, tre di padre, tre persi nella lotta nazifascista). La sua famiglia è una piccola società: sono tutti atei, qualcuno è anarchico qualcuno è più conservatore e poi c’è il bellissimo e severissimo fratello Ivanoe, il “leninista sanguinario”, “il più grande amore”. Le viene dato il nome impegnativo del fratellastro Goliardo, ucciso dai mafiosi. Non si vuole che frequenti le scuole fasciste, apprende tutto nella casa piena di libri e di strumenti, dalla musica alla filosofia, mangia “la cultura come pane”. Insorgono nel suo corpo fragile di fanciulla malattie gravi come la difterite e la TBC.
Nel 1941 giunge a Roma con la madre per frequentare l’Accademia d’Arte Drammatica di Silvio D’Amico: s’impegna, combatte con il suo accento per avere una buona dizione, ha idea di espatriare come tanti meridionali. Le lezioni sono presto interrotte dall’invasione nazista: Goliarda, arruolatasi come partigiana e ricercata perché figlia di antifascisti, vive in clandestinità nel convento di suore francesi in via Gaeta. Al termine della Resistenza, non si diploma e, contestando gli insegnamenti retrogradi, forma una compagnia di avanguardia insieme ad altri contestatari, attratti come lei dal metodo Stanislavskj. Nel ’48 instaura una relazione aperta, sentimentale e artistica, col regista Citto Maselli (ancora minorenne), che durerà 18 anni e li vedrà collaborare in una sessantina di documentari. Goliarda calca palcoscenici, frequenta ambienti esclusivi, lavora con Comencini, Zavattini e Visconti, partecipa attivamente al Neorealismo. Dal cinema e dalla macchina da presa impara a scrivere, smussa l’essere troppo accademica.
Nel 1953, dopo anni di squilibrio mentale, muore la madre e il lutto, per la figlia, sarà duraturo e logorante, inizia a soffrire di insonnia e depressione. Non vuole scrivere, sa che economicamente questa attività la distruggerà, ma in una delle innumerevoli notti bianche il conforto arriva con i versi di “A mia madre”. Citto insiste, la “chiude in casa” perché verghi fogli bianchi. A quella prima poesia ne seguiranno centinaia, composte tutte in maniera impetuosa (“Ancestrale”, La Vita Felice 2013).
Nel 1962 ingurgita un mix di sonniferi e whisky, Citto provvidenzialmente la porta in ospedale; le vengono prescritte delle sedute di elettroshock, che termineranno quando si sdraierà sul lettino del giovane psicoanalista freudiano Ignazio Majore. La psicoterapia, tuttavia, risulta fallimentare per la Sapienza, innamoratasi del suo medico e divenuta sua paziente-amante: deve abbandonarla, tenta ancora una volta il suicidio, si separa da Maselli (con cui rimane molto amica) e trova nuovamente conforto nella scrittura, questa volta consapevolmente utilizzata come medicamento: nascono così “Lettera aperta” (Garzanti, 1967) e “Il filo di mezzogiorno” (Garzanti, 1969).
Seguono dieci anni di “solitudine felice”. Dovete assolutamente guardare, su Youtube, i 34 minuti di un’intervista del 1994 perché, tra le altre cose, racconta un’esilarante avventura con Milan Kundera. Ha 70 anni e ride, senza filtri.
Dalle 9:30 alle 14, dal lunedì al sabato, dal 1969 al 1977, su fogli extrastrong piegati in due, con una Bic nero-china a punta sottile e una calligrafia minuta, Goliarda “partorisce” il suo capolavoro. Nel 1979 sposa Angelo Pellegrino, professore di Latino e Greco e traduttore di Epicuro, perché, essendo lui 22 anni più piccolo di lei, un rifiuto sarebbe stato interpretato come un’offesa.
Nello stesso anno mette a punto un’altra “carusa tosta”: è lei stessa bambina, finalmente liberata dai ricordi dolorosi e osservata con la lente della distanza (“Io, Jean Gabin”, Einaudi, 2010). Questa e tanti altri saranno testi postumi: “Destino coatto” (Empiria Ass. Cult., 2002, racconti), “Il vizio di parlare a me stessa” (Einaudi, 2011), “La mia parte di gioia” (Einaudi, 2013), Tre pièces, (La Vita Felice, 2014), “Elogio del bar” (Elliot, 2014), “Appuntamento a Positano” (Einaudi, 2015).
Un’altra svolta di questa rocambolesca esistenza si ha nell’ottobre del 1980, quando, indigente e dopo aver disseminato prove schiaccianti contro sé stessa, la Sapienza è arrestata per furto di gioielli (a un’amica ricca) e d’identità (alla cognata) e incarcerata a Rebibbia. Tra le mura del carcere, trova un’umanità nuova, autentica e sincera, la cui frequentazione la porta a compiere una vera e propria educazione sentimentale. «Io volevo restarci, ho potuto rinnovare il mio linguaggio, mi ero imborghesita, troppo specializzata, troppo intellettuale, sono rinata. C’è chi sciacqua i propri panni in Arno e chi a Rebibbia. Da siciliana e pirandelliana, per evitare lo sfratto e poter fare le copie del libro, mi è scattata una “corda pazza”. Sono stata assolta dal dolo, condannata perché il fatto c’era stato a quattro mesi di reclusione con la condizionale. Non sono una ladra». Da questa esperienza nascono due libri autobiografici, profondamente diversi però dai precedenti: “L’Università di Rebibbia” (Rizzoli, 1983) e “Le certezze del dubbio” (Pellicanolibri, 1987). Spiace visionare l’intervista di Biagi del 1984: lei narra del carcere come di un insegnamento, il giornalista la incalza incredulo, sembra che voglia metterla in difficoltà. Ma Goliarda Sapienza tiene il timone dei suoi pensieri con mano ferma, restituendo al mittente ogni banalizzazione.
Mentre attende invano il riconoscimento che merita e si è ampiamente sudata, collabora con alcune riviste, progetta nuovi volumi, insegna recitazione al Centro Sperimentale di Cinematografia ma soprattutto trascorre gli ultimi anni in cerca di un editore per “L’arte della gioia”. Stampa Alternativa pubblica la prima parte delle 500 pagine nel 1994, Goliarda muore il 30 agosto di due anni dopo a Gaeta. La stronca un attacco cardiaco, viene ritrovata sul pianerottolo giorni dopo.
“Non sapevo che il buio / non è nero / che il giorno / non è bianco / che la luce / acceca / e il fermarsi è correre / ancora / di più”.
Da quando è spirata questa donna straordinaria, accanita fumatrice mancata bisessuale cuoca talentuosa, non si sono più contati gli spettacoli teatrali su di lei, le biografie, le monografie, le tesi di laurea, i convegni, gli incontri, le letture. E ora è giunta anche la serie.
“La lunga marcia dell’Arte della gioia” è riassunta da Pellegrino nella prefazione all’edizione Einaudi. Le risposte negative degli editori, le stroncature dei maggiori critici italiani, la giacenza ventennale in una cassapanca, la fortuna in Francia.
Modesta, l’eroina dell’epopea incompresa, è la prima dei tanti figli che Goliarda Sapienza non è riuscita ad avere (e ne avrebbe voluti tanti, come la madre!). Sintesi ipnotizzante di carnalità e intelletto, in molte righe la si ama in altrettante la si odia. Il nome non la rappresenta. Da vittima diventa protagonista, da essere selvaggio e abbandonato si evolve in militante della sua storia individuale e della Storia. La sua filosofia sarà perseguire l’arte della gioia, ciò che la rende felice, non elargizione del destino ma atto di volontà. «Ma bisognava essere liberi, approfittare di ogni attimo, sperimentare ogni passo di quella passeggiata che chiamiamo vita. Liberi di osservare, di studiare, di guardare fuori dalla finestra, di spiare fra quel bosco di palazzi ogni luce che dal mare si insinua fra le imposte…». E forse non a caso nasce il primo gennaio del 1900 (anno della morte di Nietzsche e della pubblicazione de “L’interpretazione dei sogni” di Freud) e “divora” il secolo, non è destinata a un misero villaggio. Violata dal padre che non conosce a nove anni, appicca un incendio in cui muoiono la madre e la sorella disabile, viene mandata in un convento (dove è educata dalla madre superiora Leonora e dal giardiniere Mimmo) e successivamente in una casa di nobili di cui avrà la gestione, invece di farsi suora si converte in aristocratica grazie a un matrimonio di convenienza (con Ippolito Brandiforti).

Senza smettere di sedurre, uomini e donne di ogni tipo. «Così, per la prima volta in vita mia, fui amata amando, come dice la romanza. Cosa così rara che ancora adesso ricordo la sensazione di leggerezza che mi faceva aprire gli occhi al mattino, sicura della nuova avventura che sarebbe nata da lei e me abbracciate».
Amica generosa, madre affettuosa, amante sensuale, Modesta è una donna capace di scombinare ogni regola del gioco pur di godere del vero piacere, sfidando la cultura patriarcale, fascista, mafiosa e oppressiva in cui si districa.
Lascio che la trama di questa indefinibile saga (romanzo di formazione, storico, femminista, psicologico, d’avventura, erotico, politico), autobiografia immaginaria e trasfigurata, si manifesti autonomamente a voi, nei più intricati particolari, attraverso le parole o le immagini. Nell’approcciarvi, ricordate ciò che la Sapienza professava: «L’unico antidoto al fanatismo è il dubbio». Nella sua parabola Modesta attraversa il mare, il sesso, l’amore intellettuale, il comunismo, la guerra, la Ricostruzione, la morte e la paura, sconfigge la vergogna e abbatte qualunque stereotipo. Riconosce, anzitutto, le sottili mutazioni del suo pensare, individua le falle imposte dal conformismo per scrostarle via. Ferocemente.

Gemma

Gemma Guido LIBRO

Che Gemma di libro! ~ ogni domenica su I&C

Gemma Acri Guido è nata a Cariati e cresciuta a Rossano. Ha poi cambiato casa e paese più volte di quelle in cui si è lasciata tagliare i capelli.
Dopo qualche anno nelle scuole del Cuneese, ora insegna Lettere al Liceo artistico di Ciampino. In precedenza è stata corrispondente de “Il Quotidiano della Calabria”, editor e correttrice di bozze. Le piace mangiare (anche se non si direbbe!), andare al cinema, viaggiare e camminare. Crede che i suoi genitori l’abbiano ormai perdonata per aver trasformato la loro casa in una biblioteca. E che l’ironia, i cani e la poesia salveranno il mondo. Oltre alla lettura, naturalmente!

2 risposte

  1. A 68 anni suonati posso dire che la mia vita si divide in due periodi: prima dell’ Arte della gioia e dopo. Ho anche avuto la fortuna di farmelo leggere, come audiolibro da Donatella Finocchiaro, formidabile interprete di Modesta e degli altri personaggi, usando le infinite sfumature della lingua siciliana. Concordo con lei sulle due interviste. E quando ho letto della sua morte ho pianto, come se fosse accaduto ora. Vorrei essere stato uno dei figli mai nati di Goliarda/Modesta, esempio di amore e libertà. Credo che il mondo, se fosse ancora vigente il matriarcato, potrebbe assomigliare parecchio alla casa di Modesta. Speriamo che i figli dei miei figli possano vivere in un mondo che assomigli dalle case di Modesta.

    1. La ringrazio per il commento, mi ha commosso. Non è stato l’unico a dirmi che la propria vita è stata fortemente influenzata da questo libro. Mi unisco a lei nell’auspicare un mondo futuro in cui si continui (o ritorni?) a difendere i valori che la Sapienza ha incarnato vivendo e scrivendo.

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