Che Gemma di libro! Perché L’età fragile ha vinto il Premio Strega

Una rubrica sui libri. Perché? In questo nostro tempo veloce e senza pause, rallentare è l’unica azione possibile per riappropriarci della nostra anima. E lo facciamo con Gemma, docente e grande appassionata di libri di Corigliano-Rossano, che ci aiuta con le sue letture a sgretolare qualche luogo comune del mondo culturale, raccontando in poche parole, ogni domenica, che cosa meriti almeno un’occhiata in libreria. Non perdiamoci i suoi consigli!

SOLIDI E INSTABILI COME LE MONTAGNE

Giovedì scorso ha vinto lo Strega 2024, come credo meritasse e come speravo. A onor del vero, è l’unico libro della sestina finalista che ho letto, dando fiducia al verdetto della giuria di studenti che a giugno gli aveva tributato già il Premio Giovani. Sto parlando de “L’età fragile” (Einaudi) di Donatella Di Pietrantonio, scrittrice salita alla ribalta nel 2017 con “L’arminuta” (Premio Campiello), bestseller ambientato a Penne, il borgo abruzzese nel quale vive ed esercita la professione di dentista pediatrico.

In quest’ultimo romanzo, tornano, in trionfo, la carica espressiva e i temi cari alla narrativa dell’autrice, lo stile mai compiaciuto di sé e abile nel rendere la sottrazione un punto di forza. Il pilastro della letteratura della Di Pietrantonio è, a mio parere, la scrittura mimetica: la lingua con cui racconta calca i profili selvaggi della dorsale appenninica ed è impreziosita da una rara capacità di scavo nelle psicologie dei personaggi, che incarnano anche essi le spigolosità delle montagne, assumendone la finta fermezza. Il padre della protagonista, non a caso, si chiama Rocco (da roccia). L’orografia, ha confermato la Di Pietrantonio in molte interviste, pone limiti e confini, restringe gli orizzonti, impedendo, perché non tutti siamo Leopardi dinanzi alla siepe, di intravedere l’altrove che pullula al di là. Nata sotto il Dente del Lupo, geograficamente determinante nel testo, da piccola era convinta che il mondo finisse 30 km più a valle. A 8 anni è stata destabilizzata dalla visione del mare, che ancora popola i suoi incubi come un muro d’acqua.

La natura, come spiegato nella leopardiana teoria del piacere, può essere benigna o matrigna («La natura che ci nutriva era la stessa che ci affamava»). I patriarchi, Rocco e il suo amico Osvaldo, coloro che dovrebbero cedere le “armi” ma sono restii a farlo, persistono a “spacciare” il loro territorio di caccia e pascolo come immune dai pericoli, nonostante un agghiacciante fatto di cronaca nera abbia da decenni spezzato quest’illusione. Hanno rimosso la tragedia, derubricandola a vicenda eccezionale e straordinaria, e il Male non elaborato si è mineralizzato nelle ossa. Lucia, voce narrante e fisioterapista, erede del terreno scomodo ma soprattutto dei “non detti”, è chiamata a manipolare un fantasma collettivo, un passato che nessuno riesce a nominare.

I lunghi flashback sono parzialmente ispirati a quanto avvenuto nel 1997 sulla Maiella, il delitto del Morrone in cui furono trucidate due ragazze escursioniste, e scardinano, con le parole della malvista PM in jeans e scarponi cui è stato affidato il caso, gli stereotipi sulla sicurezza dei piccoli luoghi interni. La Natura, in fondo, è indifferente, lo ribadisce all’Islandese, ad alterare il rapporto con essa è soltanto l’uomo.

Non mancano, nell’opera, un po’ di ecologismo e i riferimenti alla contemporaneità, il restauro della basilica dell’Aquila dopo il terremoto (lo stucco in una crepa a testimonianza della cicatrice) e l’alienazione provocata dal lockdown. La storia, anzi, confessa la Di Pietrantonio, si è presentata come un’ospite perturbante nei terribili giorni dell’isolamento del 2020, irradiandosi attorno ai legami familiari, alle eredità che è lecito attendersi e a quelle che invece si vorrebbero declinare, e accentrandosi sul potere dei silenzi. Le omissioni, che condizionano ogni relazione, diventano il nucleo magmatico di tre generazioni: l’età di mezzo di Lucia, “tirata” da più parti; la mentalità dell’ostrica del vecchio padre Rocco, uomo duro ma non privo di affetto; il presente di Amanda, che torna a casa dalla lontana Milano in cui aveva deciso di scappare e studiare. Rientra con uno di quei treni che abbiamo visto in TV, quelli su cui disperatamente cercavano di salire gli “spatriati” prima che i collegamenti tra le regioni venissero interrotti. Ricompare portando, sulle spalle e negli occhi, un segreto che si fa ogni ora più grave e pesante. La reticenza su quanto accaduto al Dente del Lupo si riflette su quanto successo ad Amanda. Il riverbero è inoltre evidente tra il rifugiarsi della giovane in camera, mettendo in retromarcia il progetto di futuro che per lei avevano architettato i genitori, e la chiusura degli italiani per settimane.

Il titolo e le prime pagine del libro sembrano riferirsi al perimetro anagrafico dell’adolescenza agli sgoccioli, ma saremo facilmente smentiti, di età fragili ce ne sono tante. Lo sono tutte. La precarietà è la “croce” di qualunque uomo, non solo dei soldati (sono “reduce” dagli Esami di Stato, sì!), in ciascuna fase dell’esistenza si può inciampare. Il titolo, non lo nega la Di Pietrantonio, era stato immaginato per Amanda, ma, procedendo con la stesura, ha mutato senso: tutti i personaggi, che non comprendiamo fino in fondo perché son volutamente lasciate delle sacche di mistero, reclamavano la loro quota di fragilità. Specie Lucia, donna che, a quasi cinquant’anni, deve ancora accompagnare il padre nel tratto conclusivo e restituire “la luce” alla figlia. Non se n’è potuta o voluta andare, Lucia. Partenza e restanza sono i segnali (argomenti) che troneggiano al bivio dell’intreccio.

Amanda, cresciuta in una comunità protettiva più che protetta, si scopre “trasparente” in un luogo alienante, e non lo riferisce alla madre durante le “rassicuranti” telefonate. Subisce l’immobilità del verbo, come Lucia subisce quella fisica, non parte per raggiungerla, sceglie la soluzione razionale nel momento. sbagliato.

Il tema del rapporto madre-figlia, Demone della scrittrice, è affrontato in “L’età fragile” non più dal “solito” punto di vista, quello della figlia adulta che rievoca un vissuto domestico problematico, ma dall’angolazione di una madre che si confronta con sé stessa e con la figlia. Lucia, non insabbiando le proprie inadeguatezza e paura, sfata la pretesa (del padre e dell’ormai ex marito) che le madri siano naturalmente perfette; palesa, sin da quando Amanda è una neonata, la propria mancanza d’intuito, provando che l’istinto materno non è onnipotente e non arriva ovunque.

L’unica ad aiutarla, seppure l’abbia condizionata negativamente in vita, è la madre morta, “uomo in campagna e femmina in casa”. La mezza paginetta in cui Lucia ricorda la genitrice durante la malattia, prima che spirasse, rimanda al testo di Simone De Beauvoir, “Una morte dolcissima”, da cui la Di Pietrantonio ha tratto la citazione in esergo: «Non esiste una morte naturale: di ciò che avviene all’uomo, nulla è mai naturale, poiché la sua presenza mette in questione il mondo».

La madre pare suggerire a Lucia di attendere, a volte la più passiva delle risposte può essere quella giusta se non si ha una risposta. A volte bisogna avere la pazienza di sedare l’ansia e aspettare di capire o che qualcosa cambi. A volte si agisce, si omette, per difendere e invece si ferisce. Non si sa come il taciuto venga interpretato dai figli, se provochi più danni di quelli che avrebbe scatenato la verità. Amanda, alla fine, rinfaccia di essere stata tenuta all’oscuro e pretende di sapere. Ricuce la storia là dove era stata solo rattoppata, con la sua curiosità induce gli adulti a prendersi le loro responsabilità. Amanda sembra tornata alla vita, si era spenta ma non era morta.

Doralice è sopravvissuta, se n’è andata in Canada e non è più amica di Lucia.

Lucia è rimasta e ha riconosciuto la propria fallibilità, con sé stessa e con Amanda.

Amanda riparte (come sono ripartita io).

Gemma

Gemma Guido LIBRO

Che Gemma di libro! ~ ogni domenica su I&C

Gemma Acri Guido è nata a Cariati e cresciuta a Rossano. Ha poi cambiato casa e paese più volte di quelle in cui si è lasciata tagliare i capelli.
Dopo qualche anno nelle scuole del Cuneese, ora insegna Lettere al Liceo artistico di Ciampino. In precedenza è stata corrispondente de “Il Quotidiano della Calabria”, editor e correttrice di bozze. Le piace mangiare (anche se non si direbbe!), andare al cinema, viaggiare e camminare. Crede che i suoi genitori l’abbiano ormai perdonata per aver trasformato la loro casa in una biblioteca. E che l’ironia, i cani e la poesia salveranno il mondo. Oltre alla lettura, naturalmente!

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