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Ciao, Maestro

E’ andato via Giovanni Borgogno.

Lo ha fatto per come ha vissuto: con la leggerezza del signore di altri tempi.

Cinquantasei anni al servizio del popolo e dei suoi bisogni (spesso non solo clinici…). Oltre mezzo secolo di onore ad Ippocrate.

Un Maestro, vero, per tanti di noi, anche per chi ha memoria corta.

Il suo/mio ricordo più potente quando esattamente 30 anni fa, a me studente tirocinante del Suo Reparto, porse per la (mia) prima volta il bisturi, con uno sguardo profondo e sornione, divertito dal mio sudare, per il calore della lampada scialitica e (più) per i il terrore di quanto mi stava capitando. E per questo sorrideva.

Già, il Suo Reparto.

Eccellenza indiscussa a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90.

Anni, è vero di sprechi. Anni della nascita di Ospedali doppione (la Calabria- ad un certo punto- contava 41 ospedali e la Lombardia 39…!).

A dirigerli, sigle improbabili: SAUB, USSL, USL, AUSL…

Però, allora, spesso la Politica funzionava e, non di rado, sceglieva i migliori.

Il Reparto di Ortopedia e Traumatologia del Guido Compagna di Corigliano Calabro, diretto da Giovanni (ho faticato molto a dargli del “Tu”), era un colosso di operatività chirurgica e umanità medica nell’intero panorama meridionale.

Ancora oggi, la Calabria è piena di persone che dicono. “mi operò PROPRIO Borgogno”, indicandone, con quel “proprio” l’indiscusso valore.

Qui, e non sempre altrove, si operava di tutto.

Soprattutto fratture difficilissime, oggi addirittura riservate a centri di altissima specializzazione.

Con Lui, Enzo La Camera, altro chirurgo e uomo di valore altissimo, Cesare Fontanella, e tutti in medici che negli anni si sono succeduti. Per lavorare lì, bisognava comprendere la complessità umana dell’emergenza, in cui, bisogna ricordare, non si operavano fratture ma persone e le loro intere famiglie in attesa.

Erano gli anni cui, magari durante il pranzo della domenica, veniva interrotto dall’infernale Teledrin.

E lui, pronto, correva.

La Traumatologia è una scienza sociale e anche nella nostra Città ha rappresentato una finestra su quel mondo, il nostro, che tra gli ’80 e i ’90, faticava a modernizzarsi. Su trentasei letti di quel Reparto, tantissimi erano quotidianamente occupati da operai o agricoltori infortunati, spesso senza alcuna tutela, alla ricerca del pezzo di pane, magari in nero. O lavoratori, padri di famiglia, vittime di incidenti stradali, subiti spesso per andare al lavoro. Bambini ed anziani, magari coi figli lontani: lì, ognuno riceveva cure.

Agli inizi degli anni 2000 litigavamo costantemente sul futuro dell’Ortopedia. Io dicevo: “non esiste già più” mentre lui sosteneva che “l’ortopedico deve sapere fare tutto”. Faticava ad intravvedere a quel tempo, la potenza destrutturante di internet anche in medicina, opponendo la sua ferma idea di chirurgia romantica alla trasformazione divisiva in settori ultraspecialistici di una branca così enorme. La gente, tramite la rete, avrebbe in quel futuro incipiente, cercato non più un ortopedico generico, ma un chirurgo della mano, del ginocchio, della spalla etc…

 

Aveva torto, e come fanno solo le querce più alte, lo riconobbe.

Nel 2010, venne a Roma appositamente per votarmi a presidente nazionale della Società Italiana di Patologia dell’Apparato Locomotore. Volutamente, attese e si congratulò con me per ultimo, sussurrandomi, con voce commossa e ferma, solo “fanne buon uso...”

Oggi, a continuare la sua valenza chirurgica ortopedica, Il figlio Edoardo, mentre Mita utilizza la paterna umanità nel raccontare ogni giorno la nostra terra. A loro, forte, il mio abbraccio.

Ciao, Maestro.

Voglio salutarti così. Sapendo per quanto umile, che non saresti stato d’accordo.

Gino Promenzio

 

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