I FATTI Nell’ambito di un servizio di controllo, agenti di P.G. appartenenti al Commissariato di Pubblica Sicurezza di Corigliano Rossano si erano appostati nei pressi di una abitazione apparentemente abbandonata, sita nell’area urbana di Rossano, quando avevano visto sopraggiungere e fare ingresso nell’immobile il 30enne A.M., soggetto noto per i numerosi precedenti penali nonché cautelato e sorvegliato speciale al momento dei fatti. Entrati nell’abitazione, all’esito di una accurata perquisizione, gli agenti avevano rinvenuto un locale uso magazzino in cui era allocata una serra composta da telaio che sorreggeva pareti in plastica morbida. All’interno della serra erano stati rinvenuti grossi vasi contenenti piante di canapa indiana dell’altezza di un metro nonché una serie di altri oggetti utili alla creazione del microclima favorevole alla coltivazione: un sacco di terriccio, fertilizzante, una lampada HPS, una ventola. In seguito ad analisi cliniche, le piante poste sotto sequestro erano risultate corrispondere a numerose dosi di tetraidrocannabinoide con un elevato principio attivo.
L’ITER PROCESSUALE In sede di interrogatorio reso nel corso dell’udienza di convalida, il trentenne A.M. aveva ammesso la paternità delle condotte di detenzione e coltivazione. Il giudizio di primo grado si era concluso con una sentenza di condanna, successivamente confermata anche in secondo grado dalla Corte di Appello di Catanzaro. La Suprema Corte di Cassazione, all’esito delle discussioni del Procuratore Generale e della difesa dell’imputato, accogliendo le richieste avanzate dall’Avv. Francesco Nicoletti, ha annullato la sentenza per la condanna di cui all’art. 73 D.P.R. 309/90 con rinvio per nuovo giudizio dinanzi ad una diversa sezione della Corte di Appello di Catanzaro.
(comunicato stampa)