di MARTINA FORCINITI
Volendo cedere al fascino di qualche metafora, il treno è sogno, sensibile promessa. Peccato che dalle nostre parti lo sia per davvero.
Ma eccolo lì il nostro ferrovecchio a due vagoni, intento a travasare sulla banchina i pendolari dell’ora di pranzo. Quelli che di uno sgangherato viaggio su ferro non possono proprio farne a meno. E una volta che tutte le borse e le valigie sono state riposte stancamente nei cofani, il rombo delle automobili accompagna l’uscita di scena degli ultimi scampoli di dinamismo.
Sulla destra, il bar stazione chiuso a doppia mandata parla di clienti fuggiaschi, economie labili, abitudini che cambiano insieme ai tempi. Alle spalle, due locali svuotati hanno attaccato addosso il cartello “Vendesi”. Qui non c’entra la difficile riemersione dalla crisi, ma piuttosto la consapevolezza che senza libertà di circolazione non c’è indotto.
E senza indotto, tanto per restare in tema, il commercio resta fermo al capolinea.
«Si stava meglio quando si stava peggio – è il commento amaro di un abitante della zona –. Ricordo ancora quando, almeno venti anni fa, qui era tutto un via vai di persone, un’ammucchiata di automobili in doppia fila mentre il vociare dei giovani si protraeva fino a sera.
C’erano almeno due tabacchi nel giro di qualche centinaio di metri e la gente entrava e usciva dai bar a qualsiasi ora. Oggi, non ci resta che prendere coscienza del fatto che quest’area, così come tante altre, sta morendo lentamente e inesorabilmente».
Percorriamo un altro piccolo tratto. A sinistra un giovane afroamericano sonnecchia rannicchiato su una panchina. Proprio qui, fra transenne installate dopo le piogge che fanno da guardia alle buche sull’asfalto e a uffici derelitti, si riassume la tristezza di una comunità.
«Vedendo la situazione, si prova un senso di sconforto – ci racconta un altro rossanese –. Sembra incredibile che proprio qui ci fosse il centro nevralgico dell’intera area sibarita. Memoria che si perde nel tempo. E che stiamo dimenticando, giorno dopo giorno».