Editoriale. E adesso pedalare: occorre lavoro, non si vive di soli no all’industria

La vicenda della Baker Hughes, azienda di rilevanza internazionale che ha abbandonato il nostro territorio, ha riacceso un dibattito sempre più pressante: la caccia alle responsabilità quando un progetto fallisce. In questa storia, si intrecciano tre protagonisti principali: la burocrazia, la politica e l’azienda stessa. Ma mentre queste forze si confrontano su chi ha sbagliato e su cosa, c’è una categoria che paga il prezzo più alto: chi non ha un posto di lavoro. È facile parlare di progresso e sostenibilità quando si ha uno stipendio sicuro a fine mese, ma per chi lotta ogni giorno per arrivare a fine mese senza certezze, la chiusura di opportunità lavorative è devastante.  Il fulcro della questione Baker Hughes era legato alla zonizzazione, cioè a dove collocare esattamente l’azienda per la parte produttiva. Per motivi logistici, l’impresa riteneva che il retroporto non fosse adeguato. Da un punto di vista tecnico, la costruzione si poteva fare, ma mancava un consenso unanime per procedere. In assenza di una decisione chiara e condivisa, l’azienda ha deciso di abbandonare il progetto e, con essa, sono evaporate anche le speranze di chi avrebbe potuto trovare occupazione.Quando un’opportunità del genere viene meno, i primi a farne le spese è chi non ha un posto di lavoro. Quindi impossibilitati a crearsi una famiglia ad avere dei figli.

Turismo e agricoltura non bastano

Molti sostengono che il turismo e l’agricoltura siano la vera chiave per lo sviluppo del nostro territorio. È vero, sono settori importanti e parte integrante della nostra identità. Ma possiamo davvero pensare di vivere solo di questo? La verità è che no, non possiamo. Almeno non nel modo in cui sono attualmente gestiti. Il turismo e l’agricoltura, pur essendo fondamentali, non sono sufficienti a garantire un futuro sostenibile per tutti, soprattutto in un territorio che fatica a sviluppare nuove fonti di reddito e a creare posti di lavoro. È in questo contesto che si inserisce la necessità di accogliere nuovi investimenti industriali. Mentre il turismo ha bisogno di infrastrutture e di una pianificazione a lungo termine, e l’agricoltura deve modernizzarsi per essere competitiva, l’industria offre opportunità immediate di lavoro e sviluppo. Ma troppo spesso si arriva a un bivio: da una parte c’è il desiderio di preservare l’ambiente e le tradizioni, dall’altra la necessità di creare posti di lavoro. Il territorio non può permettersi di perdere investimenti, soprattutto quando il tasso di disoccupazione è già elevato e i settori chiave, come il turismo e l’agricoltura, non riescono a sostenere da soli l’economia locale. Questi settori, pur essendo fondamentali, non sono sufficienti a garantire un futuro stabile. È evidente che senza un intervento rapido e mirato, non si potrà fare affidamento solo su turismo e agricoltura per dare lavoro a chi ne ha bisogno. Questo è il motivo per cui le autorità competenti devono prendere in mano la situazione e adoperarsi per creare posti di lavoro.

Rompere con la cultura del conservatorismo

Uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo è la cultura del conservatorismo che caratterizza molte delle decisioni amministrative e politiche.  Si continua a proteggere un modello economico che non riesce più a reggere, e non si dà spazio a un approccio più dinamico, in cui il prevalente interesse pubblico dovrebbe essere la priorità. Se davvero vogliamo permettere ad aziende come Baker Hughes di andarsene senza conseguenze, dobbiamo essere pronti a rivedere completamente l’uso del nostro territorio. È necessario liberare le aree costiere da insediamenti abusivi, residenziali o agricoli che non apportano valore economico significativo, e dare vita a strutture ricettive che possano attrarre turismo e generare ricchezza. Ma tutto questo deve avvenire subito, non fra 10 o 20 anni. Il tempo delle lungaggini burocratiche e delle promesse rimandate è finito: serve un’azione decisa, oggi. Tante le idee e i progetti: un esempio concreto di come la lentezza e l’indecisione amministrativa blocchino lo sviluppo è il mancato porto canale, che avrebbe dovuto essere realizzato a Rossano (Citrea) o a Corigliano (Missionante). Si trattava di una vera e propria rivoluzione infrastrutturale, che avrebbe consentito l’attraversamento di imbarcazioni da diporto, portando un significativo impulso economico alla zona rivitalizzano quelle aree urbanistiche oramai spente. Ma, ad oggi, né l’uno né l’altro progetto è stato realizzato. Questo tipo di progetti sono importanti per creare posti di lavoro, ma purtroppo restano impantanati nelle lungaggini burocratiche. Lo stesso vale per altre iniziative, come la costituzione di una nuova provincia o di un’area metropolitana nel Golfo, progetti che avrebbero potuto dare una nuova identità al territorio e attrarre investimenti. Invece, tutto resta bloccato. Anche il rilancio dei centri storici e delle aree montane, due aree che potrebbero avere un enorme potenziale turistico, è vittima della lentezza delle politiche pubbliche. Questi luoghi, che sono veri e propri gioielli culturali e naturali, rimangono trascurati e sottoutilizzati, con progetti di recupero che procedono a rilento, se non sono del tutto assenti. Lo stesso vale per il piano spiaggia e il piano strutturale associato, che, se implementati con tempestività, potrebbero trasformare radicalmente l’attrattività turistica della regione. Nel frattempo, nulla sul versante Enel e a rischio l’investimento della statale 106.

Dire “No” all’industria: un lusso che non possiamo permetterci

In questo contesto di immobilismo generale, diventa un dramma dire “no” a qualsiasi insediamento industriale. Quando tutto è fermo e non ci sono alternative immediate di sviluppo, rifiutare progetti industriali significa chiudere la porta in faccia a chi cerca disperatamente un lavoro. Anche le migliori intenzioni, come quelle di proteggere l’ambiente o preservare la bellezza del territorio, rischiano di trasformarsi in un boomerang per ambientalisti e politici. Questo perché, alla fine, devono fare i conti con una realtà ben più concreta: le persone senza un salario non possono aspettare. La protezione dell’ambiente e delle tradizioni è certamente un valore importante, ma non può essere portata avanti a discapito del benessere economico della popolazione. Se si dice “no” all’industria, bisogna avere pronte delle alternative. Altrimenti, si finisce per aggravare una situazione sociale già precaria, con un numero sempre maggiore di persone che non riescono a trovare un lavoro e una comunità che continua a perdere pezzi.

Matteo Lauria – Direttore I&C

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