Ma così non è: infatti i Partiti sono lo strumento per concorrere a determinare con metodo democratico la Politica, così definiti dall’articolo 49 della Costituzione; perciò, sentirsi custodi della Carta fondamentale significa anche difendere la funzione ed il ruolo dei Partiti.
Il problema vero, dunque, è nel rapporto tra Politica e Partiti, nella loro interazione: la crisi dei Partiti (insieme ad altro) indebolisce la Politica e, perciò, una Politica forte ha bisogno di Partiti credibili.
Ogni soggetto autenticamente democratico, dunque, deve avere a cuore l’impegno per la loro rivitalizzazione e contrastare i tentativi di chi prova a demonizzarli e, così, ridurli all’irrilevanza.
Da ciò, all’attualità, scaturisce il dibattito sull’uso del simbolo dei Partiti in occasione della partecipazione alle elezioni, con una valenza diversa da quella avuta tradizionalmente e con declinazioni correlate al livello delle consultazioni.
Per esempio, a livello europeo il simbolo del Partito utilizzato nel Paese membro è destinato a durare solo il tempo della campagna elettorale, perché in seno al Parlamento europeo occorrerà poi aderire ad una delle grandi “famiglie” : i Popolari, i Socialisti, i Liberali, i Verdi, ed oggi – rafforzatisi – le formazioni di ispirazione sovranista. Anzi, le prossime imminenti consultazioni del 26 maggio saranno verosimilmente vissute come una sorta di Referendum tra Europeisti e Sovranisti : circostanza che sta inducendo qualcuno a perorare l’ipotesi di alleanze ampie in una lista unica per marcare la differenza tra l’una e l’altra opzione, mettendo l’elettore di fronte alla scelta se vuole l’Europa ( riformata e rafforzata) oppure la disdegna.
Perciò le affermazioni fatte in questo contesto sulla possibilità di non presentare il simbolo del Partito non possono essere mutuate per altri e diversi scenari.
Sul piano nazionale ai Partiti con il proprio simbolo si contrappongono i Movimenti che ne denunciano le presunte degenerazioni, salvo farsi essi stessi Partiti una volta “raggiunto il potere”. E questa, è cronaca di oggi.
In ambito locale, invece, il ricorso alle liste civiche ha avuto nel tempo diverse funzioni: quella di recuperare alla competizione elettorale fuoriusciti e delusi dai partiti tradizionali; ovvero di condurre battaglie di categorie o di frazioni e contrade che si sentivano trascurate. Ma – con radicate e specifiche ragioni storiche – ci sono stati anche esempi come quello di Bologna, in cui il PCI sotto il simbolo delle 2 Torri , con Sindaci di forte personalità come Giuseppe Dozza e Renato Zangheri, ha governato la città ininterrottamente dal dopoguerra e fino alla sua trasformazione in PDS. Ma nessuno metteva in dubbio che ad amministrare fosse il PCI, perfettamente identificabile. Oppure l’esempio delle zone d’Italia a Statuto speciale con l’ulteriore caratterizzazione del bilinguismo, ove è stabile la presenza di formazioni politiche che ne sono espressione.
Oggi la prospettiva è radicalmente cambiata.
Sempre più spesso il civismo non viene evocato e praticato per coprire spazi circoscritti o per integrare e migliorare l’offerta politica tradizionale, ma per sostituire i Partiti o per svolgere un ruolo egemonico nelle alleanze.
Esempi importanti sono stati quelli di De Magistris a Napoli e di Orlando a Palermo, di chiara collocazione a sinistra. Esperienze che però – nonostante la personalità dei protagonisti e l’importanza delle città – fanno fatica ad affermarsi fuori dai confini municipali, per come confermato dal tentativo non riuscito di De Magistris di presentare una lista per le Europee ispirata dal suo movimento DemA e dalla necessità per Orlando di operare un rimpasto in Giunta che rendesse più riconoscibile ed evidente la presenza dei Partiti.
All’incontrario, il civismo politico dei 5 stelle affermatosi a livello nazionale, dopo qualche exploit come a Roma e Torino, stenta a trasferirsi a livello locale dove i grillini non riescono a confermare i numeri delle politiche.
La questione merita attenzione, perché finisce per coinvolgere la sociologia della politica, prefigurando un nuovo rapporto tra società e corpi intermedi ai fini della raccolta del consenso nel contesto della democrazia rappresentativa: l’esplorazione degli spazi praticabili tra i Partiti ed i semplici Comitati elettorali.
Ogni tesi è degna di considerazione nella misura in cui trova adeguata argomentazione.
Quel che mi pare importante è la chiarezza, e cioè che sia palesata agli elettori la scelta per l’una o l’altra opzione.
Se si assume la posizione estrema per cui il civismo politico viene visto come l’unica risposta percorribile alla crisi del sistema, le liste civiche non potranno che competere da posizioni alternative ai Partiti tradizionali.
Se invece si ritiene possibile una commistione ed una complementarietà, allora è necessario che all’interno delle coalizioni i Partiti siano ben identificabili e si capisca bene – in un confronto aperto e pubblico – quali sono i valori identitari condivisi
E’ importante che l’ispirazione delle alleanze sia manifesta, ancor più se frutto di un sano compromesso tra posizioni in teoria distanti, ma ritenuto necessario per affrontare problemi straordinari. Non una sommatoria di sigle, ma un confronto/incontro tra idee-guida diverse da ricondurre a sintesi. Operazione complessa e faticosa, ma ineludibile se si vuole governare e non solo vincere le elezioni.
Comporre un treno di soli vagoni, con il macchinista ma senza la locomotiva, non porta da nessuna parte e ti fa restare su un binario morto.
Dalla crisi i Partiti ne escono se la affrontano a viso aperto, rendendosi conoscibili e riconoscibili e non mascherandosi: non è dignitoso per essi e non è onesto nei confronti degli elettori.
Una classe dirigente disposta ad autocertificare l’impresentabilità della propria formazione politica, negherebbe sè stessa e la sua funzione.
E’ un tema delicato che impegna sul piano della cultura politica prima che delle convenienze, e non tollera strumentalizzazioni da una parte o liquidazioni sommarie dall’altra.
Nicola Candiano