L’interesse per il lavoro di Francesco Filareto arriva oltreoceano. Serena Perfetto, giornalista della testata L’Italo-americano ha intervistato il già sindaco di Rossano ed ex professore del liceo classico San Nilo in merito alla sua ultima fatica letteraria. Il libro, edito da Edizioni Ferrari, si intitola “Fuga e ritorno di un popolo…” ed è stato presentato a San Francisco nel settembre scorso.
Qui di seguito pubblichiamo l’intervista.
Da dove l’idea di scrivere un libro sull’emigrazione del popolo calabrese?
Ci sono motivazioni di duplice ordine: storico e attuale. Storicamente la Calabria è la regione che ha dato un contributo altissimo all’emigrazione, dovuto alla debolezza strutturale della sua economia e alla disumana e ingiusta distribuzione delle ricchezze: dal 1861, all’indomani dell’occupazione violenta del Sud e del genocidio del brigantaggio da parte dei Savoia, fino al 1971, sono emigrati dal Paese oltre 27 milioni di Italiani (in gran parte dal Mezzogiorno, dalla Calabria), dei quali 5,5 milioni negli USA (19 milioni di oriundi italiani sono tuttora residenti negli USA, il 6 % dell’intera popolazione, di cui 1.450.884 in California), e si calcola che nel mondo ci siano ben 110 milioni di persone a portare un cognome italiano. Ma c’è dell’altro che attiene alla mentalità propria dei Calabresi, che sentono da tempo immemorabile il bisogno di emigrare, andando altrove, e le cui motivazioni ho indagato analiticamente nel mio libro.
Che tipo di fatti ritiene rilevanti condividere con noi (e che condividerà anche durante la presentazione)?
I flussi migratori del passato erano, in buona parte, reversibili, perché non pochi emigranti sono ritornati, chiudendo la ciclicità dell’esistenza, tipica storicamente dell’uomo del Sud: ritornando hanno portato nella propria terra d’origine esperienze, competenze professionali, apertura mentale, cultura d’impresa e non pochi capitali, che hanno consentito all’Italia post-unitaria di risanare i paurosi deficit di bilancio e di allinearsi ai Paesi più industrializzati del mondo. Viceversa, i flussi migratori di oggi sono lineari, sequenziali, a senso unico, non reversibili e non chiudono il processo ciclico della vita: chi fugge oggi non ritorna più. Su un piano strettamente economico, mentre la mobilità del passato ha prodotto sviluppo e ricchezza a favore sia del Paese di adozione e sia di quello d’origine, viceversa quella che sta caratterizzando oggi la Calabria (ma anche altre regioni del Sud) è una anomala mobilità (e mi sorprende che i gruppi dirigenti e le Istituzioni, nazionale e regionale, non ne hanno alcuna consapevolezza) che sottrae sviluppo e ricchezza a chi faticosamente li ha prodotti e li riversa a beneficio di chi se ne serve senza avere investito nulla in quelli. I Paesi più forti economicamente, ma lungimiranti nell’investire nella ricerca e nelle innovazioni e nell’accoglienza di giovani che valgono, sono avviati ad essere sempre più forti, a danno di quelli che non hanno saputo trattenere e valorizzare le proprie risorse umane e intellettuali e continuano, autolesionisticamente, a non dare finora alcun segno di volere avviare un cambiamento di rotta.
Quali sono le differenze e le analogie tra l’emigrazione dalla Calabria del passato e quella del presente?
Le analogie sono tante e diverse: chi emigra, tra le altre motivazioni, lo fa perché ha la percezione-convinzione che la propria terra è in declino inarrestabile e quindi non ha futuro e che non si fa nulla per arrestare l’emorragia di braccia di lavoro ieri e di cervelli oggi. Si può, nello stesso tempo, constatare che gli emigranti di oggi sono del tutto diversi da quelli del passato: mentre ieri andavano via braccianti, piccoli coltivatori diretti, artigiani, operai, ossia braccia da lavoro non qualificato, molti dei quali sono ritornati nei paesi d’origine, portando esperienze innovative e capitali; viceversa, quelli di oggi sono la più grande ricchezza che ha saputo creare la regione, ossia i giovani competenti in alcuni mestieri (ristorazione e non solo) ovvero acculturati, formatisi nelle Università (laureati, dottori di ricerca), insomma i cervelli e i talenti, che si sentono traditi dall’Italia e grati ai Paesi di adozione (in primis gli USA), perché apprezzano i meriti delle loro professionalità, offrendo loro opportunità di lavoro e ricerca, dignità, adeguati compensi; questi nuovi emigranti portano un capitale incommensurabile e più importante di quello monetario o finanziario o industriale o immobiliare, non soggetto alle variabili del mercato, è il capitale dell’intelligenza e dell’innovazione, una ricchezza sottratta alla loro terra e donata a chi se la compra. E quei soggetti sociali non tornano più, si fidelizzano ai Paesi che li hanno accolti, si integrano definitivamente in questi, si costruiscono nuovi affetti e nuovi interessi, sradicandosi definitivamente da un’Italia ingrata che non li ha voluti trattenere. Ma sappiamo bene che un Paese senza i giovani è un paese immobile, in decadenza irreversibile, senza avvenire.
Perché l’emigrazione calabrese è unica nel suo genere, rispetto a quella di altre regioni?
L’emigrante calabrese, quello di oggi e quello di ieri, ha sua a-tipicità, che ho indagato in profondità nell’ultimo capitolo del libro, e attiene a motivazioni non soltanto economico-sociali (quelli prevalenti e sufficientemente studiate, ma erroneamente ritenute esclusive), ma anche e soprattutto di ordine psicologico e valoriale, di carattere storico e strutturale, che connotano in modo peculiare e forse “unica” come lei dice, la mentalità e l’identità culturale collettiva dei Calabresi.
Che tipo di emozioni vuole suscitare in chi legge il libro? Nostalgia ad esempio?
I destinatari preferenziali del libro sono i giovani: quelli che scelgono di “restare”, quelli che scelgono di “fuggire e andare via”, quelli che andati altrove potrebbero “ritornare”. A loro sottopongo alcuni temi di riflessione. Ognuno prima o poi deve cercare risposte alle domande di “senso” e di “destino”, offrendo nel mio libro indicazioni di metodo e di merito per prendere coscienza di chi siamo e quali compiti dobbiamo assolvere nella nostra esistenza. Ho discusso per buona parte del libro sul tema della “memoria storica collettiva”, che ha almeno una triplice valenza. “La memoria è il presente del passato”, ci ha detto Umberto Eco: essa ci dà la conoscenza delle grandi sofferenze del popolo calabrese, di ingiustizie subite, ma anche di dignità e di coraggio con le rivoluzioni del 1799 e del Risorgimento, con la rivoluzione o resistenza rumorosa e attiva del brigantaggio, della rivoluzione o resistenza silenziosa e passiva dell’emigrazione di ieri e di oggi, di questo e di altro accaduto negli ultimi due secoli.
La memoria è anche riappropriazione delle proprie radici, della propria identità, come “verità” che ogni singola persona-cittadino appartiene non solo a se stesso, ma anche agli altri, e ha un compito o missione da realizzare. La memoria è il fondamento di un attivo progetto di sviluppo sostenibile, autopropulsivo, endogeno per il futuro; essa alimenta “l’indignazione e il coraggio”, senza i quali muore “la speranza” (Pablo Neruda). Richiamo inoltre l’attenzione del lettore a riconsiderare la “nozione del tempo”, che non può essere ridotto a un asfittico alienante infelice presentismo e deve recuperare attraverso la propria storia l’orgoglio dell’appartenenza alla propria comunità di popolo e attraverso il futuro la speranza che l’impossibile si faccia possibile. Ritengo di avere dimostrato che la micro-storia regionale è speculare della grande storia dell’umanità. E, infine, ho analizzato e approfondito i temi portanti del libro, che ho riassunto nel titolo, la “fuga o éxodos” e il “ritorno o nostos”, rilevandone i molteplici e complessi aspetti, fornendo altresì e soprattutto indicazioni positive di prospettiva. Il libro non ha assolutamente la finalità di riproporre l’atteggiamento della “nostalgia”, peraltro molto diffuso tra gli emigranti delle prime generazioni, e che nell’etimologia greca significa “dolore per il mancato ritorno”: un sentimento struggente, naturale, rispettabile. Ma in quel nobile sentimento si annida il rischio reale che possa innestare processi culturali e prassi di vita regressivi: eruditi e retoricamente laudativi di una “Calabria felix”, bucolica, paradiso terrestre, che non c’è mai stata, esaltatori del tempo che fu, passatisti e conservatori, detrattori della modernità e delle novità tout court. Viceversa, la memoria del passato orienta, deve orientare la cultura e i progetti di vita verso il futuro, che ci sarà e sarà come noi lo vogliamo e lo sappiamo costruire.
Nella sua attivita’ di Sindaco, ha dovuto affrontare il tema dell’emigrazione come un problema? O solo come un fatto?
Il tema dell’emigrazione l’ho sempre affrontato sia come un fatto caratterizzante la mia città (Rossano) e la mia regione e sia come un problema, inizialmente in una visione culturale storico-filosofica e di educatore di numerose generazioni di giovani nel prestigioso Liceo Classico “S. Nilo”, e poi in qualità di Sindaco rappresentante della propria comunità amministrata: entrambe le esperienze le ho trasfuse nel libro “Fuga e ritorno di un popolo …”, presentato in California, prima, nel corso dell’aperitivo storico-letterario presso il ristorante “Italico” di Palo Alto il 21 settembre e poi nel successivo 27 presso l’Istituto Italiano di Cultura di S. Francisco. Da Sindaco, eletto anche per una forte spinta dei giovani, tra i quali ho vissuto tutta la vita come docente-educatore, ho nominato come Assessore un giovane laureato, scelto dalla Consulta dei giovani, delegandolo a governare le questioni giovanili del Comune, ho affidato a un giovane l’ufficio stampa e comunicazione, ho costituito uno specifico Ufficio Europa per offrire a giovani imprenditori accompagnamento e supporti per accedere ai progetti-finanziamenti U.E., statali e regionali, ho valorizzato il personale tecnico-amministrativo addottorato avvalendomi della loro stretta collaborazione, mi sono avvalso di 15 giovani laureati stagisti con il massimo dei voti per creare innovazione ed efficienza negli uffici ecc. Ma mi sono reso conto che erano interventi straordinari, parziali, temporanei e legati alla particolare sensibilità di un Sindaco e che per i giovani talentuosi sono necessari e urgenti interventi strutturali ordinari, continuativi, stabili, che attengono soprattutto alle politiche e relativi investimenti regionali e nazionali, che erano e sono assolutamente carenti e insufficienti.
Vuole dirci un po’ di più sulla “fuga o éxodos” e sul “ritorno o nostos”, ai quali ha dato la centralità nel suo libro ?
Dopo avere documentato e dimostrato che l’emigrazione dalla Calabria e dal Meridione è l’indicatore sociale di un diffuso malessere e di una struttura economica arretrata e ingiusta, è una patologia sociale che produce abbandono, esodo e, quindi, arretratezza, povertà, sottosviluppo economico, nell’ultimo paragrafo, ho cercato di entrare nel profondo della psiche di chi emigra, nelle sue motivazioni più nascoste e oscure, nelle sue “pulsioni”, in ciò che influenza o determina le scelte di vita personali, e poi nella psicologia, nella sfera del cosciente, nei codici di comportamento dell’emigrante. Sono almeno tre le componenti motivazionali del pensare, del sentire, dell’agire: “lo stare”, il “mettersi in fuga per l’altrove”, il “ritornare”, alle quali corrispondono tre diverse e talora complementari antropologie. Sono in tanti che scelgono di “rimanere” in questa terra: c’è chi lo fa per convenienza e per interesse, perché qui ha beni da godere, conservare, accrescere e non sente il bisogno di cambiare vita; c’è chi per pigrizia e debolezza di carattere si accontenta dell’esistente e di sopravvivere, “arrangiandosi” e rifiutando ogni novità e ogni rischio; c’è, però, anche chi decide, in modo consapevole e convinto, di scegliere, nonostante tutto, di rimanere nella propria terra, molto difficile e spesso ingrata, per attaccamento a persone e luoghi, per bisogno insopprimibile di garanzia e ancoraggio di affetti e valori di appartenenza, per convinzione-certezza che qui, dove abbiamo ricevuto la vita, sia il senso e il progetto di vita personale, che, con l’impegno singolo e associato, con la resistenza e la reattività, qui sia possibile il cambiamento e la rigenerazione, che soltanto rimanendo sia possibile ai Meridionali affrontare e risolvere l’annosa “Questione Meridionale” e integrarsi, a pieno titolo, nell’Italia, nell’Europa, nel mondo della modernità. E’ questa la scelta, spesso amara e dura, di tanti di noi. La scelta più difficile è rimanere.
Ma, sono anche in tanti che scelgono di “mettersi in fuga” da questa terra, che sta alimentando l’“antropologia del viaggio, della diaspora, della fuga, della ricerca dell’altrove”. Ritengo che l’emigrazione sia una categoria dello spirito dell’uomo del Sud e segnatamente dei Calabresi: una categoria spirituale o una metafora dell’esistente. Perché emigrare? Perché andare via? Perché mettersi in viaggio? Perché “mettersi in fuga”? E “in fuga” da che cosa? Ognuno di noi è un viaggiatore, un viandante, un errante, un migrante, che è sempre in cammino, sempre in viaggio, che non vuole rinunciare al cammino e al viaggio. “Dalle più antiche nostalgie della libertà, della montagna, della foresta, dello stare meglio nasce l’emigrazione” (Corrado Alvaro). “E’ la libertà che, determinando questo immane esodo di uomini, è stata insieme ragione di duro tormento e di profonda rinnovazione” (Vito Teti). Emigrare, dunque, per rispondere all’insopprimibile aspirazione di ognuno di noi, l’aspirazione alla libertà, ad una libertà senza limiti, infinita; per rispondere all’insopprimibile aspirazione all’infinito, a superare ogni orizzonte e ogni frontiera ritenuta – a torto – invalicabile, ad andare oltre e sempre oltre; per uscire; per viaggiare; per appagare l’incontenibile “pulsione” dell’“éxodos” o esodo o uscita o viaggio: un desiderio, un bisogno, sempre nuovo, sempre rinnovantesi, formatosi sotto la soglia della coscienza, nell’inconscio, nel “profondo” della psiche, nel freudiano “Es” o “Id”. Tale pulsione a uscire, emigrare, viaggiare, si è formata nell’immaginario dell’uomo singolo e associato della Calabria, tanti secoli fa e nel corso di oltre tremila anni, presso i nostri più remoti antenati indigeni (Enotrii e Itali), pastori e guerrieri nomadi, costruttori della Civiltà della “Mesògaia” o della Montagna; tale pulsione si è successivamente consolidata con l’immigrazione dei Greci, navigatori e mercanti, costruttori della Civiltà della Magna Grecia o del I Ellenismo o Civiltà del Mediterraneo e del mare; un ulteriore e caratterizzante contributo viene fornito dai Bizantini costruttori del II Ellenismo. La “pulsione dell’éxodos”, formatasi e sedimentatasi per forza endogena ed esogena, porta il Calabrese (e il Meridionale), da secoli, a mettersi in cammino, a viaggiare, a emigrare, ad andare “altrove”, per bisogno naturale e per scelta consapevole di “mettersi in fuga” dai pregiudizi e condizionamenti soffocanti e paralizzanti del proprio ambiente, dall’assuefazione, dall’attesismo immobilistico, dalla tentazione della sopravvivenza, dalla rassegnazione, dal fatalismo, dal crudele destino, dal senso del limite e del finito, dallo spirito di rinuncia, dalla mentalità con-servatrice e stagnante, dal dogma che il mondo è immodificabile. In fuga “per”: per imparare dai mondi diversi che sono andati avanti mentre noi siamo rimasti fermi, per potere esprimere le infinite potenzialità in un ambiente favorevole che riconosce il valore, sa valorizzare, sa dare fiducia e spazio. E sono in tantissimi i giovani che stanno scegliendo l’Europa o l’America, sono giovani talenti, acculturati, dotati di intraprendenza e di alte competenze, impegnati nella ricerca scientifica e nelle professioni manageriali, che nell’“altrove” si possono esprimere al massimo e al meglio.
Ma la vita, nella sua complessità, è sì “èsodo”, ma non è soltanto “èsodo”: è anche rifiuto di arrendersi ad esso, è volontà tenace di continuare il cammino, è insopprimibile bisogno di “tornare” nel luogo che ci ha dato la vita, nella propria isola di “Itaca”, nella propria “Terra Promessa”. Infatti, la “pulsione dell’èxodos” è inseparabile nel Calabrese (e nel Meridionale) da un’altra incontenibile, irrefrenabile “pulsione” quella che i Greci chiamano “nòstos”, ossia il “ritorno”, opposta a quella, ma complementare e inseparabile da quella. La vita è “ritorno”. Il senso della vita è il “ritorno”: ritornare al luogo della memoria, da cui si è voluto andare via, perché, per noi eredi della cultura greca della “ciclicità”, l’itinerario e il senso della vita e della storia vanno cercati in un processo ciclico a cerchio, non in un processo lineare e sequenziale, come invece ritengono S. Agostino e la cultura cristiana: l’uomo di Calabria è come una rondine, che dopo avere spiccato il volo, ritorna al suo nido. L’Ulisse di Omero e di Dante rappresenta la metafora del ritorno o, per meglio dire, della sintesi di “éxodos” e “nostos”, di fuga e ritorno. Ulisse, prima abbandona la sua Itaca, gli affetti familiari e i privilegi di re, e cerca l’“altrove” nella conquista di una città lontana. Non pago di onori e ricchezze, reduce dalla vittoria su Troia, cerca di fare “ritorno” alla sua patria, alla sua famiglia, alle sue radici, contrastato dalla volontà degli Dei e dalle tentazioni umane. Ma, deciso e determinato, dopo dieci anni di peregrinazioni, eroiche avventure, sofferenze, alla fine, ritorna e realizza il suo progetto di vita e dà il senso alla sua vita, tanto da essere ancora percepito come l’eroe della fuga e del ritorno, il simbolo della ciclicità o cerchio semplice (andare e tornare). La figura di Ulisse sarà, dopo tanti secoli, rivisitata e reinterpretata poeticamente da Dante, che ne dà una versione più complessa e più compiuta. Ci parla di Ulisse del dopo ritorno ad Itaca, inquieto, insoddisfatto, scontento, agitato da un “furore eroico” di sfuggire all’immobilità di una vita inattiva e sedentaria o da “bruti”, dall’ansia di novità, dal bisogno irrefrenabile di cercare e “seguire virtute e conoscenza”, rinnega, per la seconda volta, la propria gente e la propria terra, lascia tutto e riprende la via della fuga e del viaggio, vuole sapere che c’è oltre le Colonne d’Ercole (ritenute allora il confine del mondo e il limite invalicabile delle possibilità conoscitive dell’uomo), accetta con coraggio il rischio di voler conoscere ciò che gli uomini non debbono e non possono apprendere, sfida le incomprensibili limitazioni imposte dal fato e dalla divinità e, per avere osato tanto e per avere visto ciò che gli umani non possono vedere, paga con la vita. L’Ulisse di Dante è la metafora, il simbolo, il modello di riferimento del cerchio complesso e continuo: andare e tornare e, poi, riprendere la fuga, il viaggio, per un nuovo ritorno. Il senso della vita è un esilio perpetuo, una continua fuga, un incessante “spaesamento”. Ma è anche ritorno, ossia presenza, testimonianza credibile, riappropriazione di memoria e identità, amore e gratitudine, amore e “restituzione” per la terra e la gente che ci hanno dato la vita e la qualità di persone, convinzione-certezza, percepita anche come vocazione e missione, che quello che facciamo qui ed ora, dove tutto è più difficile, ha un senso e un valore in più. Andare-tornare-stare e, poi, nuovamente ri-andare-ritornare-rifermarsi, chiuso un cerchio se ne apre un altro: è il ritmo triadico della storia dell’uomo di Calabria.
Quali prospettive vede per la sua Calabria ? C’e’ un futuro per la Calabria e qual è ?
Ritengo che ogni Calabrese, che non voglia darsi per vinto e non voglia cedere allo spirito di rinuncia e rassegnazione, debba fare uno sforzo di elaborazione culturale e progettuale per il futuro. Ai lettori ho proposto “Il TERRITTORIO CHE VOGLIAMO”, che ho mutuato dalla famosa frase “la città che vogliamo”, tratta dalla “Città del Sole” di Tommaso Campanella, il filosofo calabrese dell’Utopia e di Possibìlia, ossia di un Mondo parallelo al nostro, un Mondo Ideale che non c’è, non c’è mai stato, ma che potrebbe esserci: è il Mondo dei nostri sogni, dei nostri progetti, il Mondo del futuro. Senza una carica progettuale di positività e di speranza, proiettata nel futuro possibile, saremmo condannati ad un presentismo amaro, asfissiante, senza senso. I destinatari sono i cittadini che sono rimasti e quelli che, emigrati, vorrebbero fare ritorno, e anche le Istituzioni pubbliche, i gruppi dirigenti, gli operatori economici, sociali, culturali.
La prima proposta, è una rivoluzione culturale, finalizzata alla presa di coscienza, al recupero e rivalutazione della memoria storica collettiva, del senso dell’identità e dell’appartenenza. Infatti, il dramma maggiore che possa toccare ad un popolo è l’espropriazione o la rimozione della memoria e dell’identità, perché perderebbe la sua anima. Ognuno di noi, nella sua esistenza, si pone o si dovrebbe porre almeno due domande: qual è il senso della nostra vita e qual è il nostro progetto di vita. Entrambi traggono alimento da ciò che siamo stati e che ancora condiziona il nostro esserci qui e ora: “un albero senza radici muore” (Cassiodoro). La coscienza delle radici ci fa sentire parte integrante di un popolo, che, come gli altri popoli, ha le sue luci, le sue ombre, i suoi chiaroscuri, che non ha alcuna pretesa di superiorità verso gli altri popoli, ma ha l’orgoglio (la “tigna”) di non sentirsi subalterno o inferiore ad altri. Chi perde o rimuove la propria identità di origine rischia, in questa fase globale e destrutturata della storia, di sentirsi e di trovarsi escluso, emarginato, disadattato, “perdente”, mentre dovremmo fare di tutto perché il locale interagisca con il globale, facendosi glo-cale.
La seconda proposta riguarda il cambiamento della nostra mentalità e della nostra prassi di vita. Dobbiamo prendere atto e dobbiamo convincerci che non abbiamo bisogno di iniziative estemporanee, né di sterile e astratta erudizione, né di pigrizie e improvvisazioni, nè di vittimismo lagnoso e paranoico, né tanto meno di passatismo nostalgico, di fatalismo attesistico e quietistico. Questi sono, assieme all’ individualismo e al campanilismo, i nostri peggiori e persistenti difetti, che hanno limitato o ostacolato il nostro processo di emancipazione e di integrazione. Bisogna invertire la tendenza; abbiamo bisogno di sapere quali obiettivi e finalità vorremmo conseguire, di recuperare protagonismo personale e solidale, per liberare le energie sopite, di imparare l’ascolto, il dialogo, la partecipazione democratica e attiva, prendendo coscienza e convincendoci che cambiare è possibile, rinnovare è possibile, costruire una società migliore è possibile, certi che se ce l’hanno fatta gli altri ce la possiamo fare anche noi. In un mondo che si va sempre più globalizzando, occorre fare sistema e operare in un sistema. Occorre, inoltre, creare sinergie con i Calabresi della “diaspora”, i Calabresi sparsi in tutto il mondo, ricchi di esperienza, desiderosi di riportare le proprie esperienze acquisite e ritornare nella propria terra, di contribuire a renderla migliore, più sviluppata, più in sintonia con la nuova economia globale.
La terza proposta riguarda la centralità della legalità, della sicurezza, dell’etica sociale, che assicuri imparzialità e trasparenza negli atti pubblici e nel governo locale e regionale, contro la dilagante piaga del favoritismo e del clientelismo (che premia i servi, gli incapaci, i fannulloni), il confronto e la concertazione con le rappresentanze sociali e i cittadini, l’esercizio del potere come servizio a favore dell’interesse generale e del bene comune, il rispetto delle leggi e delle regole (“lo Stato di diritto”), il sostegno e l’incoraggiamento alle forze dell’ordine e alla magistratura, presìdi e garanzie dei diritti, della giustizia, dell’ordine democratico. Auspico che, attraverso questa via, si rinsaldi il patto sociale tra cittadini e Istituzioni, tra “Paese reale” e “Paese legale”, al fine di recuperare la fiducia dei cittadini nello Stato e nelle sue articolazioni periferiche, di contrastare i diffusi abusi, malaffari, illegalità della delinquenza comune e mafiosa, di poter vivere, finalmente, in un paese normale e civile.
La quarta cosa di cui ritengo abbia bisogno la Calabria è che si parta dalle risorse disponibili del territorio per un Progetto che deve sapere coniugare qualità della vita, sviluppo e progresso economico, occupazione, soprattutto a favore delle nuove generazioni, esposte al rischio di emigrazione e di una “nuova diaspora”; che si prenda coscienza che non è vero che siamo una terra povera, anzi che ci si convinca che disponiamo di ingenti risorse, che, però, non sappiamo ancora valorizzare: i Centri Storici (ricchi di storia, tradizioni secolari, arte, qualità della vita), gli 800 Km di costa, le grandi pianure, le dolci colline, le sterminate montagne con boschi lussureggianti, le produzioni identitarie tipiche (come l’olio, gli agrumi e le clementine, la liquirizia, il pesce, i prodotti agro-silvo-pastorali ecc.), la creatività e l’ingegno di tanti operatori economici, artigiani, piccoli industriali, le sensibilità, le conoscenze, le progettualità degli intellettuali e, per ultimo, ma non ultimi, i giovani, segnatamente quelli acculturati, professionalizzati, aperti all’innovazione, i talenti che sono la principale ricchezza del nostro Sud. Su queste consistenti risorse si programmi e si elabori un Progetto di sviluppo territoriale eco-sostenibile, ossia compatibile (con le nostre risorse e la qualità della vita e dell’ambiente), locale, endogeno, autopropulsivo, capace di liberare l’inventività e lo spirito imprenditoriale della nostra gente, capace di trasformare la regione da esportatore di materie prime in produttore ed esportatore di manufatti e prodotti rifiniti, capace di espandere lo spirito associazionistico e solidale e di attrarre gli investimenti pubblici e privati in modo da renderci pronti ad affrontare le sfide del presente e del futuro, ricche sì di incognite, ma anche di imprevedibili prospettive.
La quinta proposta punta su un turismo destagionalizzato per tutto l’anno, possibile perché la regione è una delle poche d’Italia a combinare, in una felice sintesi, mare, pianura, colline, montagne, Centri Storici di straordinaria bellezza, prodotti identitari tipici inconfondibili, culture mediterranee, clima dolcissimo, proverbiale ospitalità della gente di Calabria. Il Turismo di qualità può diventare la vera “industria” di cui ha bisogno la Calabria.
La sesta proposta punta sui grandi appuntamenti culturali, come quelli riguardanti gli Enotrii, i Brettii, gli Itali, la Civiltà della Magna Grecia, la Civiltà Bizantina e Cristiana, le Culture del Mediterraneo ecc., tali da porre tutta la regione al centro dell’ attenzione internazionale e renderla attrattiva e di forte richiamo.
La settima cosa di cui ritengo abbia bisogno la Calabria è l’urgente apertura di grandi vertenze di territorio con lo Stato, per togliere la regione dalla grave condizione di debolezza e subalternità, facendone un territorio aperto alle innovazioni e alla modernità, attrattivo e competitivo, di pari ruolo e di pari dignità con altre aree d’Italia. E’ urgente la creazione di una moderna rete infrastrutturale, che faciliti i collegamenti e la mobilità, come l’autostrada jonica (SS. 106 o E. 90), che è la priorità assoluta, il potenziamento delle linee ferroviarie la riqualificazione dei Porti, il potenziamento degli aeroporti, l’ammodernamento delle strade di raccordo con le zone e i paesi dell’interno. Ritengo che il Modello integrato di sviluppo per quest’area debba essere incentrato sul territorio come risorsa non rinnovabile, finalizzata a un’economia sostenibile ed eco-compatibile, in grado di mettere insieme la qualità della vita e le tre direttrici di marcia dell’agricoltura, dell’industria di trasformazione, del turismo. Questi tre settori strategici ed economici sono in grado realisticamente di garantire progresso materiale, lavoro, occupazione, sviluppo, tutela e salvaguardia dell’ambiente e della salute dei cittadini.
Siamo consapevoli che la repressione del brigantaggio, l’emigrazione, il mancato sviluppo socio-economico, la crisi della Civiltà contadina hanno decretato la sconfitta del popolo meridionale, che è un popolo sconfitto e vinto nella storia. Sconfitto e vinto, ma, tuttavia, con la dignità di un popolo che non ha piegato la schiena e si è battuto, e si batte ancora con tenacia, orgoglio, fierezza. Con questi valori abbiamo lottato, con questi valori abbiamo resistito qui, in questa terra difficile, ma nostra, perché ci ha dato la vita e conserva i nostri affetti. Con questi valori abbiamo affrontato e stiamo affrontando le difficoltà delle vecchie e delle nuove emigrazioni. Con questi valori siamo restati oppure siamo ritornati. Con questi valori ci sentiamo impegnati ad affrontare le sfide del presente e del futuro. Ci sono, oggi, accanto a tante inquietudini e insicurezze, anche tanti segni di speranza in Calabria, per guardare con fiducia al futuro. Il Meridione e la Calabria si integreranno, a pieno titolo, nell’Italia, nell’Europa, nel mondo se si libereranno dalla mentalità piagnona, fatalistica, attesistica, immobilistica, conservatrice, e se, viceversa, impareranno a lavorare a rete e a fare sistema territoriale, se libereranno le capacità di intraprendenza e di partecipazione singola e associata, se si doteranno di una classe politica e dirigente seria credibile e autorevole. Oggi sono tante in Calabria le testimonianze di “resistenza civile”, di indignazione, di coraggio, di fierezza e di speranza: sono “i ribelli positivi, i ricostruttori di buona comunità”, i protagonisti di cittadinanza attivi, singoli o partecipi di movimenti o soggetti operativi di associazioni, moltiplicatori di prassi di cambiamento, che hanno scelto di rimanere in questa terra… nonostante tutto, e stanno avviando un risveglio in tante realtà meridionali e costruendo, sia pure in mezzo a gravi difficoltà e lentamente, una nuova società del riscatto, che possa stare alla pari con le altre società nazionali e internazionali.
Il resto e gli approfondimenti il lettore li troverà nel libro.