Il vino della montagna di Rossano, racconto di Martino A. Rizzo

Fino agli anni ’50-’60 del secolo scorso, le colline di Rossano erano ricche di fiorenti vigneti. Percorrendo la strada che dal Traforo va verso la montagna, già dalla Pantasima si iniziavano a vedere i primi filari di viti che coprivano i pendii, almeno fino ad arrivare all’altitudine di circa settecento metri, quando cominciava la vegetazione con i boschi di castagno. E la stessa cosa era salendo in montagna da Santa Maria delle Grazie, proseguendo poi verso Piano Russo e Crocicchia. Nel 1838 Luca de Rosis, scrivendo di varie contrade rossanesi, precisava che erano
«tutte coverte di vigne e di frutteti». L’Inchiesta Jacini condotta nel 1877, con lo scopo di indagare sulle condizioni dell’agricoltura e del mondo rurale nell’Italia da poco unita, riporta che nel Rossanese c’erano 758 moggia di coltivazioni a vigneto, circa 5.300 ettari che, facendo dei calcoli grossolani e approssimati per difetto, equivalevano a una produzione più o meno di circa 300.000 quintali di mosto. Insomma, tanto vino da coprire le esigenze delle famiglie e delle oltre cinquanta osterie del paese, senza necessità di dover ricorrere al mosto di Cirò.

La lavorazione per la produzione del vino avveniva, racconta Jacini, con «l’uva che si taglia e raccoglie, si gitta nei palmenti per lo più in fabbrica, si pesta con i piedi nudi, si riversa il mosto sulle vinacce d’onde è uscito, si lascia fermentare pel tempo che piace al proprietario, poi si spila, le vinacce si stringono sotto il torchio, e l’intero liquido si trasporta con barili o con otri nelle cantine e s’imbotta». Metodi usati fino al ‘900 e dei quali chi scrive ha ancora un nitido ricordo.

Una testimonianza su questo mondo di vigneti e di vendemmie si trova nei diari di Ignazio Pisani, pubblicati da Mario Massoni nel 2017, dove si racconta che verso metà agosto i nobili e i rappresentanti dell’alta società rossanese si ritiravano nelle loro belle ville in montagna, zona Piana Vernile, per la vendemmia e il Pisani annota anche con molta cura i dettagli dell’andamento annuale della raccolta dell’uva.
Questa villeggiatura era anche l’occasione per pranzi, cene, feste e divertimenti vari. Martucci, de Rosis, Amarelli, Rapani, Sorrentino, de Falco, Pisano, Labonia, Rizzuti e altri avevano tutti il loro bel casino in montagna con la vigna e il “vignero”, che lì viveva tutto l’anno con la propria famiglia e custodiva, coltivava e proteggeva la proprietà del padrone.

In queste residenze, all’epoca, si arrivava dalla strada comunale che, svoltando a sinistra, subito dopo aver oltrepassato la Contrada Gallina, ha l’imbocco tra le case Rizzo e Nastasi, e oltrepassando “la Cava” sbuca fino a sotto Villa Martucci per poi proseguire fino al vecchio bar di Mastro Luigi Orlando. Tutte le proprietà confinanti con questa strada avevano la loro vigna esposta a levante, verso Celadi, godendo dei
benefici del sole fin dal suo sorgere.

Ecco alcuni racconti del Pisani: settembre del 1899, «In montagna la villeggiatura è bellissima. Alla Vernile si trovano le famiglie Pisani, Sorrentino, De Muro, il decano Rapani, Antonio De Mundo, Filadoro, Ariani, De Mundo Battista… a Ceradonna è il Barone De Rosis con i suoi, si fanno escursioni, festicciole, musica, e si godono i benefizi dell’aria saluberrima e vivificante…». Mentre del settembre del 1910 dice: «La Piana della Vernile piena come al solito, Martucci, Pisani, Sorrentino, De Mundo, Filadoro, Ariani, Labonia Guglielmo, a Palopoli Rizzuti, a Falco Joele. A Ceradonna De Rosis. I villeggianti si sono molto divertiti con gite, balli, canti, serenate e i miei si sono ritirati il 3 novembre». Insomma la Piana Vernile era il ritrovo di fine estate dei nobili che lì villeggiavano, si divertivano e seguivano l’andamento della vendemmia. Interessanti anche i giudizi sul raccolto: «l’uva è di ottima qualità, ma scarsa per i danni del gelo della primavera passata», », «La vendemmia ha dato buon prodotto che sarebbe stato anche maggiore se avesse piovuto», «La vendemmia scarsissima in tutto il Mezzogiorno: qua in Rossano le uve bianche distrutte, le nere guaste, meno alla Piana della Vernile e Ceradonna, dove la vendemmia delle nere riesce abbondante», «La vendemmia buona per discreta quantità ma qualità cattiva», «La vendemmia buona dove è stato fatto il trattamento di solfato di rame, cattiva altrove, in media inferiore, per quantità, a quella del passato anno», ecc. ecc.

Nell’altro versante della montagna, lato Santa Maria delle Grazie, c’erano invece le vigne di alcuni rappresentanti della borghesia cittadina: Saraceno, Tavernise, Aloe, Scarnati, Montalti, Longo, Barone, Carbone erano tra le famiglie proprietarie dei vigneti, con una produzione di vino anche di alta qualità. L’Inchiesta Jacini racconta che «il sig. Vincenzo Carbone da Rossano pel suo vino comune Simari, à ottenuto la
medaglia di bronzo nella Fiera Marittima di Napoli nel 1872». Il vino si chiamava “Simari” in quanto veniva prodotto da un vigneto sito sul Cozzo Simari. Poi non è stato più conveniente coltivare l’uva a Rossano, i vigneti sono diventati rari e così il mercato rossanese trovò più congeniale andare a comprare il mosto direttamente a Cirò i cui vini oggi hanno acquisito una notorietà internazionale.

Martino A. Rizzo

I racconti di Martino A. Rizzo ~ eccezionalmente di lunedì su I&C

Martino Antonio Rizzo è un grande curioso di storie e avvenimenti rossanesi, coriglianesi e più in generale calabresi e gli articoli che prepara per Informazione & Comunicazione non sono altro che il risultato delle ricerche utili a soddisfare queste sue curiosità. Frutto di tale attività è stata anche la realizzazione del sito AnticaBibliotecaCoriglianoRossano che ormai si è meritato un posto di rilevo tra i siti contenenti libri, articoli e fotografie sulla Calabria, tutti liberamente scaricabili.

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