di Luigi Piccioni, Università della Calabria, Vicepresidente della Società italiana di storia della fauna –
Siamo abituati a pensare che il patrimonio culturale sia fatto essenzialmente di edifici, di opere d’arte, di libri e documenti di archivio, oggetti ai quali le generazioni che ci hanno preceduto hanno consegnato ciò che per loro era più prezioso e che noi riconosciamo come testimonianze da rispettare, conoscere, far conoscere e conservare. Il tempo ci ha insegnato anche che tra queste eredità possiamo comprendere anche oggetti immateriali come ad esempio i paesaggi – che sono fatti di oggetti materiali ma sono anzitutto percezioni visive d’insieme – le testimonianze orali, le espressioni artistiche come i canti e la poesia popolare, i saper fare artigianali o culinari e molto altro ancora.
Si è assottigliato in questo modo il confine tra ciò che è patrimonio che va rispettato, fatto conoscere e tutelato e ciò che non lo è e molti “oggetti” che un tempo avremmo guardato con indifferenza o disprezzo sono diventati per noi – e continuano a diventare – degni di rispetto e di valorizzazione.
Ho fatto tutte queste considerazioni per introdurre a un argomento e a una proposta che altrimenti sarebbero potuti sembrare un po’ bizzarri.
L’argomento è che il piccolo complesso di manufatti forestali della Finaita, nella montagna rossanese, al confine tra i comuni di Rossano e Longobucco, costituisce un patrimonio di valore che non merita il rapido degrado in cui sta precipitando e che quindi è opportuno e anzi necessario sottrarlo a questo destino e valorizzarlo per una rispettosa fruizione collettiva.
Credo che gran parte di coloro che leggono sappiano bene di cosa si tratta, ma vale la pena riepilogare anche per aggiungere qualche notazione magari inedita.
Il complesso è costituito da un edificio rustico a un piano, in parte in cemento e in parte in legno, dotato internamente di tre stanze; di una capanna conica in legno con tetto in paglia; di un fontanile con tettoia; di una capanna aperta per conservare la legna da ardere; di un barbecue in cemento coperto con tettoia; di una serie di tavoli e panche per sedersi sormontate da tettoie che possono ospitare almeno una trentina di persone; di sistemazioni murarie che fanno dell’area un ambito ben definito all’interno del bosco; di una serie di staccionate basse che contribuiscono a delimitare e a ornare l’intera area; di una sbarra metallica ad altezza strada; di un cancello in legno più in basso, all’altezza del complesso.
Il complesso stesso è stato realizzato presumibilmente negli anni Cinquanta e altrettanto presumibilmente – sarebbe bello saperne di più – dall’allora Azienda di Stato per le Foreste Demaniali per servire sia alla gestione del bosco sia a sistemazioni territoriali e idrauliche in un’area piuttosto vasta. È passato in seguito all’Agenzia Forestale Regionale, oggi sostituita da Calabria Verde, ma da qualche anno non è più gestito da nessuno cosicché i suoi vari elementi stanno rapidamente degradando: un po’ per mancanza di manutenzione e un po’ per un vandalismo che lo stato di abbandono non può che incitare.
Ma in che senso possiamo considerare patrimonio culturale una struttura “povera” di questo tipo?
Io credo almeno in tre sensi.
Essa ci racconta anzitutto di una cultura e di una cura del territorio – in questo caso forestale – che per decenni sono state fatte di saperi tecnici, di pratiche e di attenzione minuta che oggi purtroppo sono quasi scomparsi, ma che hanno coinvolto centinaia di persone, che hanno lasciato memorie e tracce che è solo bene non far disperdere. Il complesso di Finaita – come quello del Patire, che però ha avuto una sorte opposta per motivi facilmente comprensibili – è anch’esso quindi un monumento, una testimonianza preziosa di quello che era un rapporto tra uomo e bosco, tra società e patrimonio forestale. E, nella sua estrema semplicità progettuale e di materiali, è anche un monumento alla vita e al lavoro di generazioni di guardiani del bosco e del territorio.
In secondo luogo è un patrimonio culturale per la sua bellezza. Si tratta, ripeto, di un complesso di grande semplicità costruttiva e fatto di materiali modesti, ma a differenza di altri manufatti forestali ha un’articolazione relativamente complessa: una specie di isola autosufficiente, in grado di sostenere una permanenza agevole e soprattutto piacevole di diverse persone in tutte le stagioni dell’anno. Un’isola non piccola, ma fatta di confini relativamente precisi tra bosco e costruito/abitato e un costruito/abitato ordinato e accogliente. Il tutto dentro a un bosco imponente e non direttamente sulla strada, ma a una certa distanza, come a garantire questo carattere insulare, di religioso silenzio. È – mi azzardo a dirlo sulla base di anni di frequentazioni – un luogo magico, dove l’umano e il naturale si fondono armoniosamente.
In terzo luogo può essere un patrimonio culturale se diviene un luogo sentito come proprio e utilizzato con rispetto e amore da utenti qualificati e consapevoli, soprattutto giovani e giovanissimi. Se torna a essere un presidio territoriale, anche se in senso completamente nuovo rispetto al passato, Finaita può insomma divenire un ulteriore piccolo gioiello nella trama di tesori – spesso più nobili e appariscenti – che adornano la Sibaritide e la Sila Greca.
Nelle condizioni in cui è oggi, purtroppo, la sua sorte sembra invece dover essere quella di divenire in pochi anni un cumulo di rovine. Ci sono tornato questa primavera dopo quattro anni di assenza e il cancello di legno era stato divelto e asportato, la capanna ormai con pochissima paglia sul tetto, il fontanile otturato, l’edificio principale senza più lucchetti e chiavistelli, ancora integro all’interno ma aperto a qualsiasi devastazione, tutte le strutture esterne in legno in progressivo disarmo per mancanza di manutenzione, sporcizia ovunque. Un disastro che mi ha stretto il cuore: rispetto a quello che era, rispetto a ciò che potrà diventare di questo passo e rispetto a quello che invece dovrebbe e potrebbe essere.
Non si può permettere che Finaita faccia la fine di tante strutture che presidiavano, nella loro rustica semplicità, la montagna rossanese.
La sua bellezza magica e le sue potenzialità di accoglienza – soprattutto a fini educativi e sociali – vanno preservate.
E soprattutto agendo presto, molto presto.
Le persone di buona volontà, chi ha cuore il patrimonio storico-culturale rossanese (e già tanto sta facendo), le associazioni giovanili e ambientaliste, le scuole, le istituzioni amministrative, tutti devono risolutamente farsi carico della salvezza di Finaita, concordemente, cooperativamente.
E, aggiungo, in modo semplice, non burocratico.
Non credo servano, anzi penso che siano dannosi, interventi “ricchi” e ambiziosi. La struttura è semplice, povera; costò poco sessanta-settanta anni fa e può costare poco, molto poco, recuperarla e metterla a disposizione. Mi piacerebbe pensare a un piccolo progetto di risistemazione lasciando tutto nelle forme e nei materiali originari di cui si facciano carico concordemente più soggetti e poi una gestione affidata alle associazioni in modo aperto e non burocratico. Ancora una volta: molto semplicemente.
Sappiamo bene che le cose semplici oggi sono di gran lunga le più difficili da fare e quelle cooperative e non burocratiche anche quelle più facilmente destinate al fallimento.
Ma perché non provare?
Finaita lo merita: fosse per me lo proporrei al Fondo Ambiente Italiano come Luogo del cuore!