Il tasso di letalità è aumentato proporzionalmente alla diffusione del contagio e all’aumentare dei casi, soprattutto nelle regioni del Nord Italia, e oggi l’Italia presenta uno dei tassi di letalità più alti al mondo. Il nostro Paese non è stato però colpito in modo omogeneo e i dati dell’Istat sulla mortalità lo confermano. Infatti, il rapporto ISTAT sull’impatto dell’epidemia sulla mortalità, redatto insieme all’Istituto Superiore di Sanità (ISS), ha documentato nel mese di Marzo 2020 un aumento del 49% dei decessi rispetto alla media dei mesi di Marzo dei 5 anni precedenti. Tuttavia l’aumento della mortalità in Italia è riferibile alle Regioni che sono state colpite maggiormente dal virus. Se infatti una città come Bergamo ha presentato un aumento del 568% dei decessi, nel Sud Italia, dove il contagio è stato più contenuto, si è registrato addirittura un calo della mortalità nello stesso periodo di riferimento. Complessivamente nel Centro-Sud la mortalità nel Marzo 2020 è scesa dell’1,8%, a conferma di una minore diffusione dell’epidemia da COVID-19 nelle regioni centro-meridionali, compresa la Calabria. La nostra regione, in particolare, è stata fortunatamente una delle meno colpite dalla pandemia, registrando pochi casi (ad oggi circa 1151) e un numero limitato di decessi (95), con un tasso di letalità dell’8%, uno dei più bassi a livello nazionale ed europeo in generale (in Italia la letalità è oggi del 14%). La Calabria ha retto bene alla prima ondata dell’epidemia, grazie al lockdown imposto dal Governo e alla chiusura di alcuni comuni, identificati come focolai di infezione, mediante ordinanze del presidente della giunta regionale. Probabilmente anche gli annosi problemi infrastrutturali del nostro territorio, isolato dal resto d’Italia e del mondo a causa della drammatica e non più tollerabile mancanza di una adeguata e moderna rete ferroviaria, della scarsità di voli nazionali e internazionali (prevalentemente garantiti dall’unico aeroporto degno di nota, ovvero quello di Lamezia S. Eufemia), e della povertà di scambi commerciali con le altre regioni, hanno salvaguardato la nostra regione. C’è un dato che fa riflettere: all’acme della curva dei contagi, verso la fine di Marzo e i primi di Aprile, i pazienti Covid-19 positivi e affetti da forme più severe della malattia, necessitanti quindi di ricovero in UTI, non sovraccaricavano il nostro servizio sanitario regionale come nelle regioni più colpite. Infatti, come evidenziato dal Dott. Antonio Belcastro, ex dirigente generale del dipartimento tutela della salute e politiche sanitarie della regione Calabria, sui 107 posti di UTI già attivi in epoca pre-COVID-19, diventati poi a metà marzo 156, grazie a misure di potenziamento dei reparti di rianimazione, in data 25 Marzo si registrava il picco di 23 pazienti intubati, rispettivamente il 21% e il 15% circa rispetto al numero massimo di posti disponibili prima e dopo le misure di implementazione di nuovi posti letto in UTI. I numeri ci dicono chiaramente, pertanto, che le nostre rianimazioni non sono state assolutamente saturate rispetto al trend nazionale. In data 4 Maggio si è aperta ufficialmente la fase 2, con la ripresa di alcune attività produttive, e da oggi si sono sbloccati altri settori con l’apertura, per esempio, dei centri estetici, dei saloni di parrucchieri e barbieri, dei ristoranti e dei bar. Si pensa anche a come far ripartire il campionato di calcio di serie A (gli allenamenti sono già ricominciati, mentre in Germania è stata riavviata la Bundesliga). Tutto questo è oggi possibile grazie ai sacrifici che tutti abbiamo fatto, rinunciando a libertà costituzionalmente garantite, e che hanno portato al contenimento della diffusione del virus. L’ormai famoso R0, infatti, è costantemente sotto 1 in Italia, e in alcune regioni, come la nostra Calabria, la percentuale dei tamponi positivi è dello 0,5%. Pertanto, rispetto all’inizio di questa pandemia, il paese è sicuramente meno stressato sotto il profilo sanitario e la fase emergenziale è stata superata, anche se con postumi davvero pesanti in termini di salute pubblica ed economici. Possiamo preoccuparci, in questa fase, di far ripartire l’economia e di aiutare le imprese e le famiglie italiane che hanno sofferto maggiormente questa crisi, con la consapevolezza che, continuando a seguire le regole e i comportamenti virtuosi che ci hanno consentito di reggere all’urto della fase 1, oggi siamo sicuramente più pronti ad affrontare un’eventuale seconda ondata epidemica. Grazie al potenziamento del servizio sanitario nazionale, reso possibile dai decreti emanati dal Governo e dal Ministero della Salute in particolare, abbiamo in Italia molti più mezzi per fronteggiare COVID-19, a partire dagli 8490 posti di UTI oggi disponibili rispetto ai 5300 pre-pandemia (di questi 8490 posti al momento solo 775 sono occupati da pazienti COVID-19 positivi, il 9% circa). Il sistema sanitario è oggi più pronto anche a livello territoriale e gli operatori sanitari hanno maggiori garanzie per quanto riguarda la fornitura di DPI. Grazie al lavoro del comitato tecnico scientifico, dell’AIFA e dei ricercatori, sono in fase avanzata di sperimentazione clinica diversi farmaci di promettente efficacia, anche se non è stato ancora individuato alcun trattamento specifico per il nuovo coronavirus.
Anche nel campo della prevenzione si stanno facendo passi avanti e sono in fase di studio dei vaccini che potrebbero essere commercializzati agli inizi del 2021. Tutti questi elementi ci autorizzano a nutrire un cauto ottimismo, ma rimangono ancora molte criticità da risolvere, soprattutto nella nostra regione, dove, nonostante la minore incidenza e virulenza dell’epidemia ci avesse consentito di gestire meglio la fase post-emergenziale, sono stati commessi errori strategici grossolani, ascrivibili alla miopia politica (a livello non solo regionale ma anche comunale), che ha determinato, su alcuni temi, dei provvedimenti addirittura conflittuali con le linee guida del Ministero della Salute e dell’ISS. Infatti, mentre questi ultimi raccomandavano o di identificare strutture per la gestione esclusiva dei pazienti affetti da COVID-19, oppure, nei casi eccezionali, laddove ciò non fosse possibile, di individuare in uno stesso presidio ospedaliero percorsi ben separati per scongiurare l’esplosione di focolai infettivi nosocomiali, in Calabria si procedeva differentemente, anche scontrandosi con il parere della comunità scientifica locale. Vale la pena ricordare, a tal proposito, la dura presa di posizione del Magnifico Rettore dell’UMG di Catanzaro, il Prof. De Sarro, e dei direttori di cattedra e dell’UUOO del Policlinico di Germaneto, contro la illogica proposta del commissario ASP Zuccatelli di creare il polo COVID nel padiglione C del Campus biomedico e non a Villa Bianca, come saggiamente suggerito dallo stesso Prof. De Sarro. In ambito locale, altrettanto illogica e contraria alle disposizioni del Ministero della Salute e alle ordinanze del Presidente della Regione Jole Santelli, è stata la decisione di individuare e istituire nello Spoke del comune di Corigliano-Rossano un’area COVID nello stabilimento ospedaliero Giannettasio di Rossano, con il sostegno determinante del Sindaco Stasi. Anche in questo caso il parere tecnico di molti operatori sanitari e le obiezioni dei consiglieri comunali di minoranza non sono stati presi in considerazione, e i lavori dell’improvvisato centro COVID del nostro Spoke sono tuttora in corso. L’ottusità di chi, a livello aziendale e amministrativo, continua ad avallare questa improvvida politica sanitaria, determinerà verosimilmente degli scompensi, che avranno ripercussioni pesanti sul personale sanitario e, soprattutto, sui cittadini di Corigliano-Rossano. Il rischio concreto, infatti, è che si gestiranno male non solo gli eventuali casi di COVID-19 ma anche i pazienti affetti da altre patologie. Già, le altre patologie che qualcuno, forse, pensa siano sparite e che invece continuano a impattare pesantemente sul servizio sanitario nazionale in termini di morbilità e mortalità, molto più di COVID-19, soprattutto in Calabria. A tal proposito c’è un dato che fa riflettere: a fronte di 2 pazienti ricoverati nelle rianimazioni calabresi per SARS-CoV-2 e di un tasso di letalità (8%) che nella nostra regione è più contenuto rispetto al trend nazionale (quest’ultimo pesantemente condizionato dalla letalità in Lombardia), la mortalità per infarto miocardico è aumentata. Infatti, le principali società italiane di Cardiologia, sulla scorta dei risultati degli studi di autorevoli ricercatori, fra cui quelli del Centro Cardiologico Monzino, dichiarano che, dall’inizio dell’emergenza COVID-19, la mortalità per IMA (infarto miocardico acuto) è quasi triplicata e sono diminuite le procedure salvavita di cardiologia interventistica perché la gente evita di andare in ospedale per paura del contagio. Secondo i dati del Centro Cardiologico Monzino, i pazienti arrivano in ospedale in condizioni sempre più gravi, che rendono meno efficaci le terapie, non solo per la succitata paura del contagio ma anche per i ritardi correlati alla rete delle emergenze/urgenze, messa a dura prova e sovraccaricata dall’elevato numero di casi critici di COVID-19 nelle prime fasi dell’epidemia. Anche il Prof. Ciro Indolfi, direttore della Cardiologia Universitaria di Germaneto e Presidente della Società Italiana di Cardiologia (SIC), ha commentato con preoccupazione questi dati, sostenendo che, se questa tendenza dovesse persistere e la rete cardiologica non dovesse essere prontamente ripristinata, potremmo avere più morti di infarto che di COVID-19. Sempre secondo il Prof. Indolfi, l’organizzazione degli ospedali e del 118 nella prima fase della pandemia è stata dedicata quasi esclusivamente ai pazienti affetti da SARS-CoV-2 e molti reparti cardiologici sono stati utilizzati per i malati infettivi. Ciò ha comportato una riduzione dei ricoveri per infarto e, fra coloro che si sono ricoverati, un ritardo nell’accesso alle cure. Una riduzione sostanziale dei ricoveri dei cardiopatici è stata osservata anche per lo scompenso cardiaco e la fibrillazione atriale; in calo anche i ricoveri per malfunzionamento di pacemaker e defibrillatori impiantabili nonché per embolia polmonare.
Questo unanime grido di allarme sembra però non avere risonanza nella nostra città, tant’è vero che con i lavori di realizzazione del polo COVID nel nostro Spoke, per avviare un reparto di Pneumologia COVID, è stato determinato un disservizio nell’UO di Cardiologia (ormai ex UOC Cardiologia-UTIC per la mancata riapertura dell’UTIC e l’utilizzo degli spazi per creare la Pneumologia COVID) e nel PS del PO di Rossano. Sono stati infatti reclutati (tramite un ordine di servizio fortemente illegittimo del direttore sanitario dello spoke, il Dott. Carino) due medici del PS e due specialisti della Cardiologia, da assegnare alla nascente UO di Pneumologia. Questo illogico provvedimento comporterà da una parte il depotenziamento del servizio di emergenza-urgenza del nostro territorio, dall’altra parte l’implementazione di una Pneumologia COVID improvvisata, senza, almeno per il momento, un numero congruo di specialisti pneumologi adeguatamente formati e con esperienza nella gestione dell’iter diagnostico-terapeutico di una malattia infettiva ad altissimo tasso di contagiosità e con una letalità tutt’altro che trascurabile, specialmente se non diagnosticata in tempi brevi e se non adeguatamente trattata. Infatti, il PS, con due medici in meno rispetto a un organico già ridotto all’osso, non riuscirà ad assicurare le turnazioni nello spoke, con conseguenti gravi disagi nella gestione dei pazienti critici COVID e non COVID. La Cardiologia, anch’essa con personale medico e paramedico appena sufficiente a garantire le turnazioni e le prestazioni sanitarie già prima del provvedimento sopramenzionato, con due medici in meno non potrà garantire l’erogazione di tutte le prestazioni (ricoveri, ambulatorio dello scompenso cardiaco, telecardiologia, consulenze in PS e nei vari reparti, ambulatorio di cardioncologia, gestione dei pazienti in trattamento anticoagulante orale, laboratorio di diagnostica cardiologica non invasiva mediante ergometria, Holter-ECG ed ecocardiografia trans toracica, trans esofagea ed eco-stress) in numero congruo alle richieste, che verosimilmente, in questa seconda fase, con la riapertura delle attività ambulatoriali e dei ricoveri elettivi, aumenteranno. In particolare, potrebbero essere definitivamente chiusi, fino a nuovo ordine, l’ambulatorio di ecocardiografia transesofagea e quello di eco-stress, in quanto l’unico cardiologo con training adeguato in queste tecniche è fra i medici che verranno distaccati dalle loro UUOO di provenienza per lavorare nella Pneumologia-COVID. Quest’ultima, d’altro canto, con solo cinque medici specialisti, di cui quasi il 50% non in pneumologia, e un medico specializzando in anestesia e rianimazione, per il momento non sembra soddisfare i requisiti necessari per istituire un reparto di Pneumologia.
Secondo l’Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri (AIPO), infatti, “uno pneumologo è chiamato a trattare i pazienti con polmoniti gravi e il personale sanitario della pneumologia deve essere particolarmente esperto nel trattamento dei pazienti con patologie infettive respiratorie. Lo pneumologo ha competenze specifiche per quanto riguarda il monitoraggio e il trattamento dei pazienti con insufficienza respiratoria ricoverati nelle unità di terapia subintensiva respiratoria, e quando necessario può svolgere un compito diagnostico importante nell’esecuzione della broncoscopia con BAL”. La direzione sanitaria del nostro spoke, alla luce di queste considerazioni, con un singolo atto e nel silenzio assordante dei vertici aziendali e del Sindaco Stasi, troppo impegnato in video e commenti quotidianamente postati sui propri canali social in merito ai problemi della nostra città (tuttora largamente irrisolti nonostante un fiume di parole e di buoni propositi da libro Cuore), autorizza la realizzazione di un reparto di Pneumologia totalmente improvvisato e cancella i requisiti fondamentali necessari per un centro DEA di primo livello (senza l’UTIC si perde lo status di Ospedale Spoke e si torna ad essere Ospedale Generale di Zona come San Giovanni in Fiore ed Acri, si esce dalla rete regionale SCA (Sindrome Coronarica Acuta) e non potranno essere ricoverati pazienti infartuati che non necessitano di Angioplastica Primaria o interventi di Cardiochirurgia urgenti), che dovrebbe rappresentare lo standard minimo ospedaliero per la terza città della Calabria. Corigliano-Rossano, infatti, con i suoi quasi 80 mila abitanti, il territorio più vasto della regione e un bacino di utenza di oltre 200 mila abitanti, dovrebbe e potrebbe ambire a un upgrade del proprio sistema ospedaliero, dotandosi di strutture di DEA di secondo livello. La mia speranza è che questa pandemia, che ha fortunatamente colpito meno duramente la nostra regione e ancor meno la nostra città, induca finalmente la politica nazionale e regionale a investire nel servizio sanitario calabrese in modo adeguato e proporzionato ai reali bisogni di tutti i suoi cittadini. Perché non è più ammissibile, nel 2020, che un cittadino di Cariati o dello ionio cosentino in generale, sia meno tutelato dal servizio sanitario regionale, nell’ambito della rete dell’emergenza-urgenza, rispetto, per esempio, a un abitante di Soverato. Basti pensare, infatti, che un paziente di Soverato con IMA ha oggi la possibilità di essere trattato tempestivamente (nell’arco di 15-30 minuti) nei tre vicini centri di emodinamica e cardiologia interventistica del Policlinico di Germaneto, del Pugliese-Ciaccio e della Clinica Sant’Anna. Un cittadino del nostro territorio, attualmente, ha quest’ampia offerta sanitaria in ambito cardiovascolare, soprattutto dopo la chiusura recente dell’UTIC dello spoke di Corigliano-Rossano e la mancanza non più concepibile di un servizio di emodinamica nella terza città della Calabria? La risposta a questi bisogni non è certamente il polo COVID nel nostro Spoke né tantomeno l’installazione di una seconda TAC, laddove non viene garantita nemmeno l’ordinaria manutenzione dell’unico ecocardiografo disponibile nel PO di Rossano. Tuttavia, finché qualcuno continuerà a sostenere che i problemi sanitari della nostra regione e della nostra città dipendono prevalentemente dal numero chiuso nella Facoltà di Medicina e Chirurgia e dalla scarsa attrattività delle strutture ospedaliere calabresi nei confronti dei medici specialisti, temo che i bisogni sanitari dei miei concittadini rimarranno ancora insoddisfatti, per molto tempo, e dovremo aggrapparci alla speranza che il buon Dio (o la buona sorte per gli atei) ci assista come durante la pandemia da COVID-19.
Dott. Saverio Salituri – Già Direttore UOC – Cardiologia – Utic – Presidio Rossano