Di seguito l’omelia di Mons. Santo Marcianò nella celebrazione del Giubileo dei Sacerdoti e della Vita Consacrata:
È forse il grido più celebre di Santa Teresa d’Avila che, in poche sillabe, esprime il cuore della vita consacrata e presbiterale. Sono felice e onorato di presiedere il Giubileo di Sacerdoti e Consacrati di questa diocesi e ringrazio di cuore il vescovo, Mons. Giuseppe Satriano. Grazie, Eccellenza, perché il suo invito, segno di quella fraternità episcopale e presbiterale che è uno dei doni più belli della Chiesa di Dio, mi dona la gioia e la commozione di tornare dopo un po’ di tempo in questa bellissima Cattedrale, di ritrovare tante persone care che saluto con affetto; di condividere con la preghiera e l’Eucaristia una tappa del cammino giubilare di questa comunità diocesana assieme al suo pastore.
«Solo Dio basta!». Potrebbe essere il grido di questo Giubileo straordinario, che riporta la Chiesa alla centralità radicale della misericordia: la misericordia è tutto, la misericordia “basta” perché Misericordia è il nome, l’identità di Dio. E potrebbe essere un commento sintetico e concreto alla Parola di Dio di oggi, attraverso la quale vorrei ripercorrere, in tre scene, la storia della vocazione.
«Solo Dio basta»!
Gesù sembra dirlo a Pietro, Giacomo e Giovanni sul Tabor. L’esperienza che il Vangelo narra (Lc 9,28-36 ) ricorda il mistero dell’inizio di ogni vocazione. Ed è bello, per ciascuno di noi presbiteri e consacrati – spesso il Papa lo suggerisce – fare memoria di questo inizio, quasi riviverne i sentimenti del cuore.
La memoria è più del ricordo; non è forse questo che celebriamo con l’Eucaristia? La memoria testimonia che quanto ricordiamo non è un episodio appannato e scolorito dal tempo ma una verità ancora viva e feconda, anche se sempre e continuamente trasfigurata.
La vocazione, in realtà, ci ha trasfigurato. In un percorso graduale o nella folgorazione di un attimo, ci ha fatto guardare al mondo da un altro punto di vista, da quella «nube luminosa» del Tabor che avvolge di Mistero la chiamata di ogni creatura.
Ciascuno di noi, forse, ricorda il giorno e l’ora in cui Dio lo ha chiamato; soprattutto, ricordiamo la voce del Padre che ci ha indicato nel Figlio, «l’Eletto», Colui la cui Parola avremmo accolto e ascoltato per tutta la vita: che avrebbe mosso le scelte, illuminato il discernimento, nutrito il cammino, diretto la preghiera, riempito di contenuti ogni nostro dialogo e relazione con i fratelli.
Ma la voce del Padre, quel giorno, ci ha detto pure che, in quel Figlio Amato, c’era ciascuno di noi; che la vocazione sacerdotale e religiosa si accoglie a partire dal sentirsi amati infinitamente e, per questo, capaci di amare con il Cuore di Cristo, Sposo tenero e forte di ogni consacrato.
È il cuore che veniva trasfigurato in quel momento, mentre i sentimenti si affollavano, contrastanti e confusi, come per Pietro, Giacomo e Giovanni: il «sonno», di chi fugge, unito al desiderio di restare sul Tabor; il balbettio di chi non sa cosa dire, assieme alla scoperta del silenzio, custode stupito delle cose preziose che Dio continua a rivelare… E il nostro «Sì» è sgorgato dal cuore, assieme alla parola pronunciata con Pietro: «Maestro, è bello!».
Non lo dimentichiamo: la nostra vocazione sacerdotale e consacrata nasce dalla Bellezza, la nostra vocazione è Bellezza! La bellezza del contemplare Cristo avvolto di vesti candide e poi di scendere dal monte, soli con Lui solo. La Bellezza è la gioia di un Dio che basta!
«Solo Dio basta»!
Nella prima Lettura (Gen 15,5-12.17-18), il Signore stesso sembra sussurrarlo ad Abramo, tentato di scoraggiamento.
La scena biblica rimanda alla quotidianità della nostra vocazione: fatica e gioia, successi e fallimento, esaltazioni e persecuzioni… al fondo, una sola parola: servire! Portare la Sua Misericordia che cura, risana, restituisce bellezza a noi e a ogni creatura che dobbiamo servire.
Penso a voi, che vi consumate nel raggiungere e servire le periferie esistenziali di questa nostra terra del Sud, specchio e grembo di dolori, difficoltà, emarginazioni che tanti nostri fratelli vivono, anche in altre parti del mondo – io stesso lo tocco con mano nei miei continui viaggi: l’esclusione e la povertà, la carenza di strutture o lavoro, la mano tesa dei migranti in quei mari che diventano nuovi campi di sterminio, il consumismo e la violenza che cancellano valori e schiacciano diritti, prima di tutto quello alla vita e alla libertà religiosa… Quante sfide e povertà sono accarezzate da voi, presbiteri e consacrati! Quanta consolazione e speranza, misericordia e profezia attraversano silenziose la vostra vita donata all’Amore e trasfigurata dall’Unico Amore!
Ma nella quotidianità, come per Abramo, ci aspetta anche la prova, la crisi della vocazione; e nella crisi, che può rappresentare anche un dono, occorre guardarsi soprattutto – Papa Francesco in Messico lo ha affermato con forza – dalla «tentazione della rassegnazione»[1].
Cari amici, non rassegniamoci, mai, anche dinanzi all’impossibile! Non rassegniamoci a soccombere a una sterilità che nulla ha a che fare con la promessa di Dio. La rassegnazione «ci impedisce non solo di camminare, ma anche di tracciare una via… non soltanto ci impedisce di annunciare ma – dice il Papa e mi ha molto colpito – ci impedisce di lodare»[2].
Nella quotidianità apparentemente infeconda, Dio rivela ad Abramo la verità fondamentale della sua vocazione: gli chiede di alzare lo sguardo verso quelle «stelle» che sono la discendenza che Egli gli ha preparato. È come se Dio dicesse ad Abramo, e in lui a ciascuno di noi, “tu devi essere padre, devi essere madre; tu sei padre, tu sei madre, anche se i frutti non riesci a vederli, anche se le stelle non riesci a contarle”.
La paternità e maternità è promessa intimamente legata alla vocazione, che si realizza sempre e comunque ma a un’unica condizione: lasciarsi condurre fuori dal Signore, a guardare il cielo, cioè a lodare, adorare. La risposta vocazionale, il ministero dei presbiteri e dei consacrati è un continuo esodo da se stessi, è il superamente degli egoismi e dell’autoreferenzialità, in un instancabile impegno di comunione e servizio che la preghiera trasforma nella fecondità inattesa della promessa di Dio.
«Solo Dio basta!».
È questo, dunque, il grido della preghiera.
Quanta preghiera, se guardiamo alla storia della nostra vocazione! Preghiera consolante o sanguinante, di supplica o di canto, preghiera fiduciosa o inconsapevole…
È la preghiera continua che ci ha consentito e ci consente, come Paolo esorta nella seconda Lettura (Fil 3,17-,1), di rimanere «saldi nel Signore».
Tale saldezza ci rimanda alla maturità della vocazione, alla fedeltà e perseveranza fino alla fine; al segreto consegnarsi quotidiano che permette al prete e al consacrato di prepararsi alla morte vivendo in pienezza la vita. È il destino della nostra vocazione: quella «patria nei cieli», nella quale, spiega Paolo, la «trasfigurazione» sperimentata sul Tabor si compirà nella «croce di Cristo», della quale non dobbia comportarci da «nemici».
La vita sacerdotale e consacrata è, ad un tempo, sguardo rivolto al cielo e profezia di cielo; e anche l’uomo di oggi, appiattito dal materialismo, afferrato della tecnologia, schiavizzato dall’ideologia, ha bisogno di riscoprire il Cielo come patria, come Casa Paterna, nella quale essere accolto da un Padre Misericordioso della cui tenerezza noi – sacerdoti e consacrati ma anche laici, giovani, bambini e, soprattutto, famiglie – dobbiamo essere incarnazione, icona: dobbiamo essere Volto.
Carissimi fratelli e sorelle,
«Gesù Cristo è il Volto della Misericordia del Padre»[3], scrive il Papa nella Bolla di indizione del Giubileo; e anche il Salmista (Salmo 26) sembra intuirlo: «Il tuo volto, Signore, io cerco».
Cercare il Suo Volto: è la storia di ogni vocazione, è la gioia di ogni vocazione; è il mistero del suo inizio, la forza della sua fatica, la speranza della sua eternità.
Questo Giubileo della Misericordia sia per noi, sacerdoti e consacrati, uno sguardo a quel Volto, una parola d’amore sussurrata a Lui: parola di lode, gratitudine, supplica e certezza, parola di desiderio. Sì, anche la misericordia è desiderio che, a partire dalle viscere, impregna, trasfigura, unifica tutti i nostri desideri nel desiderio del Suo Volto. Volto incontrato, amato, sperato e sempre cercato.
«Cercate il suo volto; il tuo volto, Signore, io cerco»… perché «solo Dio basta!».
E così sia!
[1] Francesco, Omelia alla Messa con sacerdoti, religiosi, religiose, consacrati e seminaristi. Morelia, 16 febbraio 2016
[2] Ivi
[3] Francesco, Misericordiae Vults, n.1