Sulla base dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione It., si pensa di concedere forme di autonomia ad alcune regioni del nord, in particolare alle regioni richiedenti Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, per poter disporre di nuove entrate trattenendo sul territorio più risorse, intervenendo sull’attuale meccanismo di trasferimento dei fondi statali.
Si configura lo scenario che, come è stato definito da alcuni illustri commentatori, rappresenterebbe la «secessione dei ricchi» dal momento che Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna da sole producono oltre il 50 per cento del Pil italiano.
Secondo uno studio dell’Università di Napoli Federico II, le Regioni che attueranno il federalismo differenziato vedranno incrementata nella situazione ex post la quota delle risorse erogata e gestita dalle loro Amministrazioni rispetto alle situazioni ex ante (+106 miliardi per la Lombardia, +41 miliardi per il Veneto e +43 miliardi per l’Emilia-Romagna), mentre si assisterà ad una diminuzione di pari importo delle risorse gestite direttamente dall’Amministrazione centrale.
La «secessione dei ricchi» si basa, in sostanza, nel ritenere come esistente nelle pieghe del bilancio dello Stato un residuo fiscale da utilizzare a favore di alcune Regioni. Il residuo fiscale sarebbe nient’altro che la differenza tra l’ammontare di risorse – sotto forma di imposte pagate dai cittadini – che lo Stato centrale riceve dai territori e l’entità della spesa pubblica che lo stesso eroga – sotto forma di servizi – a favore dei cittadini degli stessi territori. Ma anche ammettendo l’ipotesi dell’esistenza di un residuo fiscale, si dovrebbe tener conto del fatto che una parte della differenza di quanto versato all’erario rispetto a quanto trasferito dallo Stato alle Regioni ritornerebbe sul territorio regionale in forma di pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico posseduti dai soggetti residenti in quelle regioni. Insomma, prendendo in considerazione la distribuzione territoriale dei detentori dei titoli del debito pubblico statale e scomputando il pagamento dei relativi interessi, potrebbe verificarsi un’enorme riduzione del presunto residuo fiscale, dal momento che una gran parte del debito pubblico è posseduto da soggetti residenti proprio in quelle Regioni.
Inoltre andrebbe considerato la non irrilevante circostanza che i soggetti economici pur operando nel sud e in Calabria, ove producono e incassano i profitti, pagano le tasse nella sede ove hanno dichiarato il domicilio fiscale, ossia nelle regioni del nord.
L’autonomia differenziata, in particolare nei settori come la sanità o l’istruzione, porterebbe alla cristallizzazione di una disparità di trattamento di prestazioni tra i cittadini delle diverse regioni, aggravando il divario già oggi esistente, perfino dando seguito a modelli scolastici formativi diversi.
Lo Stato deve, viceversa, impiegare i residui fiscali per portare i servizi nelle Regioni deficitarie ai livelli essenziali delle Regioni più efficienti e non per rafforzare quelli delle Regioni più ricche.
Occorre difendere l’uguaglianza, avendo come riferimento l’art. 120, secondo comma, della Costituzione, che garantisce il mantenimento della tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, attribuendo al Governo nazionale il potere di sostituirsi alle Regioni e agli Enti locali in caso di mancato rispetto di una tale tutela. Inoltre le regioni con maggiore capacità fiscale devono dare alla perequazione territoriale una parte del loro gettito.
Il dibattito sul regionalismo differenziato si sta svolgendo, in conclusione, su un’ambiguità di fondo del rapporto tra differenziazione e uguaglianza, tra competizione e cooperazione e tra localismo e coesione sociale, e porterebbe, come già accaduto in passato, ad un proliferare di interventi della Corte Costituzionale tendenti a ristabilire la legittimità costituzionale delle stesse disposizioni sul regionalismo differenziato.
Ciò che maggiormente preoccupa è l’impostazione prescelta circa le modalità di ripartizione dei finanziamenti alle regioni, perché ove si intenda arrivare – come sembra – ad un maggior trasferimento delle risorse finanziarie basato essenzialmente sulla spesa storica, questo criterio avvantaggerà le regioni del nord, con minori trasferimenti per le regioni del sud, in quanto da diversi anni la spesa, non per niente, è aumentata solo per le regioni del nord, che significherebbe ripercussioni sui livelli di assistenza e sui livelli delle prestazioni.
Il rischio è una divisione ancora più marcata tra nord e sud d’Italia e la rottura della stessa unità sociale, culturale ed economica, ma potrebbe comportare anche la non più sostenibilità del debito pubblico dello Stato a causa della riduzione dei flussi di cassa di livello statale.
In un tale contesto, il progetto della stessa autonomia differenziata come fin qui propugnato, configura un vulnus non solo al Sud ma all’intero Paese, in quanto metterebbe in discussione lo Stato democratico e solidale come ideato dai nostri costituenti.
Viceversa la politica e il Governo dovrebbero riconsiderare la loro visione verso il sud, e comprendere che il meridionalismo, nell’attuale prospettiva, potrebbe rappresentare la nuova frontiera dove investire in turismo e in agricoltura, attraendo soggetti economici esterni con politiche di incentivazione, a beneficio anche della fiscalità nazionale, e che per posizione territoriale il Sud, potrebbe costituire un ponte naturale verso il medio oriente, incrementando scambi ed esportazioni commerciali, potendo così l’Italia giocare un ruolo importante in quest’area del sud Europa grazie proprio alla sua stessa collocazione geografica.
Occorre quindi fare un appello a tutta la deputazione Calabrese, in particolare a chi ha la responsabilità di sostenere in Parlamento il Governo Nazionale, di salvaguardare l’unità nazionale sociale, culturale ed economica del Paese, ricordando che in uno Stato unitario i servizi universali devono essere uguali per tutti i cittadini e sono pagati per la quota più cospicua attraverso la fiscalità generale.
Tra l’altro questo è specificamente ribadito anche nel “Contratto per il governo del cambiamento” della Lega – 5 Stelle, al punto 21, laddove si afferma che “la sanità dovrà essere finanziata prevalentemente dal sistema fiscale e, dunque, dovrà essere ridotta al minimo la compartecipazione dei singoli cittadini” (Comunicato stampa).