Prosegue a ritmo serrato il lavoro degli inquirenti paolani per dare un nome e un volto agli assassini di Roberta Lanzino. A 27 anni da quel barbaro omicidio che ha tolto agli affetti dei cari l’allora 19enne ragazza rendese il procuratore capo Bruno Giordano – titolare della nuova inchiesta – vuole con determinazione risolvere il giallo. Avvalendosi proprio dell’arma che ha scagionato Franco Sansone e Luigi Carbone (l’uno il principale imputato del processo per l’omicidio della giovane, l’altro, secondo l’accusa, svanito per lupara bianca proprio perché voleva riferire su quell’omicidio): il Dna dell’assassino.
Quella traccia genetica isolata dal Ris di Messina che ha posto la parola fine sull’ipotesi che a seviziare, violentare e poi trucidare la ragazza siano stati loro. In attesa che la sentenza programmata per il 6 maggio prossimo dia una risposta giudiziaria sulle responsabilità degli ultimi indagati della tragica vicenda (in realtà solo Franco Sansone è ancora vivo) – per la quale i pm Maria Camodeca e Sonia Nuzzo hanno chiesto l’assoluzione di Sansone per la morte di Roberta, ma la condanna per l’assassinio di Carbone – i segugi paolani sono già all’opera. Un pool ristretto di investigatori starebbe infatti passando a setaccio momento per momento le ultime ore di vita di Roberta. E le prime comparazioni sarebbero state già effettuate. Il sistema adottato dagli inquirenti non differirebbe da quello utilizzato dai colleghi di Bergamo per individuare in “ignoto 1” Massimo Bossetti: cerchi concentrici attorno ad alcune persone che per qualsiasi ragione sono gravitate attorno alla scena del crimine. Nel caso di Roberta Lanzino si sarebbe partito da chi nel corso della lunga inchiesta sull’assassinio della giovane è stato lambito dalle indagini. Un sistema investigativo che, in realtà, incrocia il vecchio e il nuovo modo di indagare. Battere i sentieri e le viuzze palmo a palmo di quel maledetto 26 luglio del 1988 giorno in cui la ragazza a bordo del suo motorino ha imboccato la strada che da Falconara Albanese l’avrebbe dovuta portare a mare sul Tirreno cosentino per trascorrere qualche attimo di serenità con la sua famiglia. Nelle testimonianze messe anche a verbale nel processo emerge come Roberta abbia smarrito la strada chiedendo ad alcune persone un’indicazione per raggiungere la sua meta. Ed è proprio tra quelle persone che le indagini sono partite all’epoca della prima inchiesta. Da lì sono ripartiti gli inquirenti per setacciare uno a uno i soggetti che hanno avuto qualche contatto con la ragazza. Un lavoro certosino che non lascerà alcun elemento al caso. Per evitare i forse tanti errori commessi, soprattutto nella prima fase delle indagini. Quelle a ridosso dei fatti dell’epoca e che avrebbero potuto dare riscontri più diretti su come si siano svolti i fatti. Gli inquirenti paolani sono convinti che però, nonostante il lungo lasso di tempo, quella trama possa essere ancora ricomposta. E dalle operazioni di comparazione genetica si possa passare da una prima fase di allargamento dei soggetti potenzialmente ricadenti nelle caratteristiche di “ignoto 1” – già avviata – ad individuare chi abbia commesso quell’atroce omicidio. I primi ad attendere quella verità sono i genitori di Roberta per i quali quel maledetto giorno di 27 anni non è affatto un lontano ricordo.
(Fonte www.corrieredellacalabria.it – Roberto De Santo)