Abbiamo impiegato secoli per relegare la morte nel doppiofondo della consapevolezza e d’improvviso eccola, imperatrice assoluta dei nostri pensieri. Dopo aver usato le energie migliori per zittire la paura, siamo dovuti restare fermi a guardarla strapparsi i bavagli, e ascoltarne la voce. Ci siamo sentiti soli, separati da un mondo diventato improvvisamente minuscolo – coincidente con il perimetro dei nostri appartamenti.
E abbiamo dovuto imparare a stare divisi e a rispettare le distanze: una nuova geografia dell’amore.
Ci siamo spogliati delle abitudini, dei riti quotidiani che ci facevano sentire al sicuro, dei ritmi che governavano le nostre giornate; e a quel punto, indifesi come raramente siamo stati, abbiamo visto comparire un’enorme freccia luminosa a indicare a che punto esatto fosse la nostra esistenza. Tu sei qui. E non abbiamo più potuto evitarla, quella freccia sfrontata, né abbiamo potuto ignorarla, affogandola tra i mille impegni, le uscite, gli incontri. Tu sei qui.
Siamo stati costretti a guardare davvero quello che restava delle nostre vite una volta sottratto tutto il superfluo – che poi, abbiamo capito, proprio superfluo non era. E cosa rimaneva, in fondo in fondo, sotto il senso di oppressione, sotto la ferocia delle nostre paure e l’istinto da animale braccato? Cosa rimaneva a tenerci in piedi? Le relazioni. L’ordito dei nostri legami: l’amore, in ogni sua manifestazione. Anche l’amore in assenza, che ci ha fatto riscoprire il valore di gesti minimi, capaci di unire nonostante la lontananza fisica: una voce nel ricevitore che chiede Come stai?, un messaggio sul telefonino e forse, per i più fortunati, una lettera.
Abbiamo sentito, fin nel profondo, che non è garantita la vita, nessuna vita. E che dolore e spavento hanno senso solamente se ci insegnano a riconoscere il dolore e lo spavento degli altri. Così del verbo amare, tra gli innumeri significati che gli sono attribuiti, ne abbiamo rispolverato uno che spesso viene offuscato dall’idea romantica di amore. Quel significato è: solidarietà.
Solidarietà ci fa essere la voce che risponde al telefono o che per prima cerca il contatto – Come stai? Ci fa essere la mano che appende un sacchetto con la spesa davanti alla porta di qualcuno che non può uscire di casa. Ci fa cedere il passo nella fila davanti alla farmacia.
Sono solidarietà ed empatia, queste forme benedette di amore, che ci inducono a coprirci il viso con la mascherina quando sulla nostra strada incrociamo l’altro – e quel gesto vuol dire: Ho rispetto per la tua fragilità. Perché una società è un organismo che va preservato nella sua completezza. Comincia da un corpo, si allarga a famiglia, a comunità, a paese. Esserne parte vuol dire salvaguardare ogni più piccola parte dell’intero.
L’amore ai tempi del Covid è riscoprirsi caduchi, inermi, impauriti e, nonostante questo, trovare la forza per riconoscere la vulnerabilità dell’altro, il suo profondo bisogno – così simile al nostro – di essere protetto.
Siamo foglie appese al capriccio del vento – è l’amore la colla che ci tiene aggrappati al ramo.
Fioly Bocca
FIOLY BOCCA laureata in Lettere all’Università degli Studi di Torino e si è specializzata con un corso in redazione editoriale. “Ovunque tu sarai”, il suo romanzo d’esordio, è stato un grande successo del passaparola, tradotto in cinque Paesi. Nel 2016 è uscito, sempre per Giunti, “L’emozione in ogni passo”.