PAGINE CHE MORDONO
Figlia di un diplomatico, nasce a Kobe, in Giappone, terra che ama immensamente e di cui conosce la lingua alla perfezione. Intelligentissima e precoce, sin da piccola s’impone di immagazzinare ricordi. Viaggia moltissimo e vive, seguendo gli spostamenti di lavoro del padre, prima in Cina, poi a New York, in Bangladesh, in Birmania e nel Laos. Viene a stretto contatto con culture orientali, ma si sobbarca più di venti ore di greco e latino a settimana.
Quando, infine, la famiglia rientra a Bruxelles, Amélie ha 17 anni, si sente un pesce fuor d’acqua e comincia a scrivere con regolarità. Si laurea in Filologia romanza e parte per l’arcipelago dell’oceano Pacifico, dove si fidanza e batte il record mondiale di discesa dal monte Fuji. Due anni più tardi, delusa dal mobbing subito in un’azienda, torna in Belgio e, nel 1992, pubblica “Igiene dell’assassino”, suo undicesimo manoscritto («Scrivere è il privilegio assoluto. Non esiste grazia più sublime. La pubblicazione è a volte un di più, spesso un degrado del piacere iniziale»). È la storia del premio Nobel per la letteratura Tach, misantropo con pochi mesi di vita; si concede a cinque giornalisti con l’intenzione di raggirarli: sadico, la spunta con i primi quattro, ma la quinta, una donna, riesce a tenergli testa, delineando di lui un ritratto inimmaginabile. Rivelazione dell’anno, il libro riscuote un successo immediato tra il pubblico. La critica letteraria francese, però, non crede che una ragazza di 24 anni possa averlo redatto e lo attribuisce a un autore famoso che avrebbe utilizzato uno pseudonimo.
Da allora la Nothomb dà alla stampa un volume l’anno, è prolifica ma non si ripete e non annoia. C’è sempre qualcosa di brillante, sorprendente e/o disturbante che incuriosisce, quel quid di cui molti narratori difettano (Allende o Coelho, a parer mio, per fare solo un paio di esempi).
Le sue esperienze personali, è vero, tornano, ma calate in significanti diversi e arricchite da riflessioni prima non condivise. Anche in “Psicopompo” riepiloga gli spostamenti asiatici negli anni dell’infanzia, la morbosità del rapporto con la sorella Juliette, l’anoressia, la morte del padre, ma semina e raccoglie frammenti di sé che finora aveva taciuto.
A dodici anni, mentre sta nuotando al largo del Golfo del Bengala, le mani del mare l’hanno abbrancata, è stata violentata da quattro uomini. Non impazzisce, non vuole morire, ma qualcosa le si spegne dentro. Sente che deve ricominciare da zero, ma non sa dove situare lo zero. Nei manuali di ornitologia cerca metodi per volare, per “abbandonarsi all’ebbrezza del vuoto”.
Per raggiungere la morta che è rimasta su quella spiaggia, smette di alimentarsi; l’anoressia le appare (in visione) come la sua ripartenza, ma la salute peggiora e si rimette a tradurre l’Iliade: «Se dovevo crepare, tanto valeva farlo con un minimo di classe». Conduce due vite distinte, quella del corpo e quella dell’anima, finché una notte non sente di nuovo le gambe calde. Il calore. Ogni mattina compie la sua palingenesi, nonostante gli strascichi di dieci anni di sopravvivenza, la paura che il miracolo della salute non si rinnovi, l’angoscia costante di ricadere nell’abisso. Decide che scrivere sarà come volare: «Bisognava posizionarsi in un certo modo dentro di sé, scegliere la buona angolazione e la giusta distanza, e poi lasciarsi precipitare». La scrittura, Rilke docet, deve essere questione di vita o di morte. O almeno di migrazione.
Cos’è, allora, lo psicopompo? Nella religione greca era un epiteto di divinità, specie di Ermes (ma anche di Caronte, Apollo e Orfeo), e designava la funzione di guida delle anime dei trapassati verso il regno dei morti. Nell’iconografia cristiana l’uccello psicopompo permette di illustrare la natura dello Spirito Santo. Per Jung l’archetipo dell’animus (parte maschile della donna, Logos paterno) è anche uno psicopompo, mediatore fra coscienza e inconscio. La Nothomb lo spiega nell’ultima parte del libro, che si apre invece con una fiaba tradizionale del Sol Levante. Prima chiarisce gli esordi e gli sviluppi della passione per la specie aviaria, che coincidono col principio dell’introspezione, della perlustrazione dell’ignoto in lei, con la capacità di osservazione in diversi ambienti e di arrangiarsi con qualsiasi mezzo.
“Una creatura a metà tra Cappuccetto Rosso e il lupo” l’ha definita un critico qualche anno fa. Intuizione più che indovinata per colei che crea figure ambigue e intrecci sarcastici, che ha una venerazione estetica per le parole, si sveglia nel cuore della notte, beve tazze di tè nero molto forte e scrive quattro ore a mano. Tutti i giorni.
Se desiderate scoprirla, potete cominciare da una a caso delle sue opere. Se volete subito farvi spiazzare, scegliete “Le Catilinarie”, il paradiso ribaltato in inferno di una commovente coppia nella nuova casa a lungo sognata. A me son piaciute anche “Sabotaggio d’amore”, la Cina vista con gli occhi di una bambina che scopre sentimenti essenziali e il ruolo del nemico, “Stupore e tremori”, resoconto dell’esperienza umiliante dell’autrice nell’azienda Yumimoto (declassata a guardiana dei bagni maschili), “Metafisica dei tubi”, autobiografia irriverente dei primi anni di vita, “Né di Eva né di Adamo”, storia d’amore col giovane e ricchissimo giapponese Rinri. Tra le ultime, ho apprezzato tanto “Gli aerostati”, interscambio, con sfumatura noir, tra una studentessa di filologia e un sedicenne che adora la matematica e disprezza la letteratura.
Spero che la Nothomb cambi idea e divulghi, un giorno, qualcuno dei molti libri “impresentabili” che nasconde. Scrive perché il gelo non si solidifichi nelle sue vene e perché ha preso alla lettera Kafka: «Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi». Sa che il maestro boemo considerava valida la similitudine anche per i lettori.
Gemma
Che Gemma di libro! ~ ogni domenica su I&CGemma Acri Guido è nata a Cariati e cresciuta a Rossano. Ha poi cambiato casa e paese più volte di quelle in cui si è lasciata tagliare i capelli. |