Che Gemma di libro! Questa domenica in Giappone con lo scrittore-samurai Mishima e il suo libro del 1956 tradotto oggi da Feltrinelli

Una rubrica sui libri. Perché? In questo nostro tempo veloce e senza pause, rallentare è l’unica azione possibile per riappropriarci della nostra anima. E lo facciamo con Gemma, docente e grande appassionata di libri di Corigliano-Rossano, che ci aiuta con le sue letture a sgretolare qualche luogo comune del mondo culturale, raccontando in poche parole, ogni domenica, che cosa meriti almeno un’occhiata in libreria. Non perdiamoci i suoi consigli!

COLUI CHE “DANZAVA NEL CRATERE DI UN VULCANO”

Galeotte furono la citazione di Affinati di domenica scorsa e la copertina dal taglio filmico in bianco e nero… In libreria, nel reparto delle nuove uscite, la mia mano è calata su “Una primavera troppo lunga” di Mishima, che recente non è (1956) ma è stato tradotto e pubblicato in Italia da Feltrinelli solo un paio di settimane fa. È andare sul sicuro, lo riconosco, scegliere un Esempio di quella che è indubbiamente letteratura universale. Anche con quest’opera all’apparenza delicata e leggera (e satirica), lo scrittore-samurai esprime tutta la sua potenza: non importa in che epoca si svolgano i fatti e in quale parte del mondo, l’uomo, sempre vittima dei suoi vizi peggiori e spesso celato dalle maschere che la società impone, non soccombe a sé stesso solo grazie alla scintilla primordiale dell’amore. «Momoko pensava spesso di amare troppo», questo è un incipit che inchioda! E. Trevi, recensendo il volume su “La lettura” del 28 aprile, riconosce difatti in Mishima “un maestro supremo anche in versione rosa pop”.

Yukio Mishima, pseudonimo di Kimitake Hiraoka (1925-1970), è il nome di un talvolta esteta talvolta guerriero, il più interessante dei suoi personaggi. La sua breve esistenza è un’opera d’arte.

Romanziere, saggista, poeta, drammaturgo, regista, maestro di Kendō, legge e ama T. Mann, De Sade, Nietzsche, F. Dostoevskij, Rilke, O. Wilde, Sun Tzu, Bernanos e naturalmente Yasunari Kawabata. È Candidato a quel Premio Nobel per la Letteratura del 1968 che vincerà proprio il suo amico Kawabata. Il loro stretto legame (“Lettere”, SE, 2002) e questo altro genio meriterebbero una puntata a parte (e forse ci sarà), ma anticipo che avevano ventisei anni di differenza, uno era ciliegio o neve e l’altro katana, ambedue si sono suicidati.

Nostalgico del Giappone militarista e feudale, Mishima rifiuta il declino morale e civile di un Paese che si è fatto incantare dalle sirene della modernità e della prosperità materiale (americanizzazione), tradendo consuetudini millenarie. Un Paese distrutto dalla guerra mondiale, un Paese colpito con la Bomba A, un Paese colpevole di atrocità spaventose, un Paese che si è ricostruito ma ha perso la fede. Considerato un nazionalista dagli intellettuali di sinistra e un anarchico o un martire dai pensatori di destra (anche italiani!), conduce la sua lotta ideologica in solitudine, milita senza bandiere slogan o partiti.

Mishima è al contempo il più tradizionalista e il più occidentale degli scrittori nipponici del Novecento. Ventitré anni prima del colpo di scena finale, lo stesso giorno del 25 novembre, inizia la stesura del celebre e semi-autobiografico “Confessioni di una maschera” (1949), in cui descrive (con tanto di resoconto del primo momento di autoerotismo) come ha scoperto il proprio lato omosessuale contemplando la figura di San Sebastiano dipinta da Guido Reni, vista su un catalogo. Nel 1970, lo ritroviamo, invece, quarantacinquenne, alla testa di un’organizzazione paramilitare con l’intenzione di sollevare l’esercito per attuare un impossibile colpo di stato e restituire il potere all’imperatore. Nel 1967 aveva creato la Tate no Kai, “la società dello scudo” (ispirata a una poesia dell’VIII secolo), e reclutato i primi membri all’università (la milizia “privata” non supererà i 250 uomini). Chiede e redige una nuova Costituzione che ripristini la totale sovranità della nazione.

Il suicidio è architettato nei minimi particolari. Quando capisce che l’esercito ufficiale gli ha voltato le spalle, occupa l’ufficio del generale Mashita con quattro dei suoi compagni più fidati e, dal balcone del Ministero della Difesa, a soldati e giornalisti, contro il Trattato di San Francisco, proclama: “Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo!”.

Poscia riproduce il “seppuku”, la “morte onorevole”. Il rito comincia con l’harakiri: il samurai, con il tantō, si squarcia il ventre per cadere in avanti. Il kaishakunin dovrebbe nel frattempo decapitarlo in modo che il dolore non gli sfiguri il volto, ma la katana maneggiata da Masakatsu Morita (anche lui farà seppuku) sbaglia due volte il colpo di grazia, deve intervenire Hiroyasu Koga. I “quattro fiumi” dell’essenza di Mishima ‒ scrittura, teatro, corpo, azione ‒ si condensano nel suddetto gesto estremo. Un’opera d’arte, appunto.

Tra il 1949 e il 1970 un lungo e sofferto percorso costellato di opere. Per la critica letteraria, che la paragona alla “Recherche” proustiana, il capolavoro di Mishima è la tetralogia “Il mare della fertilità”: “Neve di primavera”, “Cavalli in fuga” o “A briglia sciolta”, “Il tempio dell’alba” e “La decomposizione dell’angelo” (consegna l’ultimo foglio prima di spirare).

Io ho ritrovato la prosa raffinata, le riflessioni profonde, l’introspezione psicologica, la passione l’ira e la bramosia di scandalo di Mishima, un ultimo tra i Romantici, anche in: “Musica”, partita a scacchi tra la bellissima Reiko, che sostiene di non sentire la musica (metafora dell’orgasmo), e il suo psicanalista; “Il padiglione d’oro”, ispirato alla realmente accaduta distruzione di un tempio di Kyoto per mano di un accolito buddista; “La scuola della carne”, gioco perfido e ossessivo tra una quarantenne libera ed emancipata e un ragazzo misterioso nella Tokyo postbellica; “Vita in vendita”, in cui il copywriter Hanio diffonde un’inserzione, divertente ma nichilista, perché non riesce a farla finita.

Ma ora torno alla storia appena letta, che sembra materializzarsi in fotogrammi: il trucco e gli abiti delle donne sono ben delineati, come la gestualità e le espressioni degli uomini, i viali, i parchi, la natura, gli edifici e le stazioni di Tokyo, i bar dall’antro buio in netta contrapposizione allo splendore esterno. Metafora del doppio, stridente in Mishima, cortese nei modi, inflessibile nei principi. A essere raccontato è il fidanzamento troppo lungo tra due giovanissimi, Momoko, figlia di un venditore di libri usati, e Ikuo, giovane studente di Giurisprudenza, unico rampollo di una famiglia borghese altolocata. La narrazione, divisa in dodici capitoli, racchiude un intero anno, durante il quale sono il susseguirsi dei mesi e il cambio delle stagioni a scandire il ritmo temporale e metaforico. Frequentissime, infatti, sono le pause meteorologiche, che accompagnano l’azione registrando le variazioni della luce e del clima nella Tokyo degli anni Cinquanta, che lentamente emerge dalle macerie degli incendi e dei bombardamenti, priva di passato e di futuro come un luogo onirico.

L’amore è il vero protagonista, si evolve attraverso numerose tentazioni e verifiche (una pittrice per lui, un seduttore per lei, la castità e i parenti per entrambi). I diversi interventi, spesso grotteschi, messi in atto allo scopo di manipolare gli eventi, mettono a dura prova i due innamorati, fino al punto in cui non si capisce quale sarà l’esito della loro attesa: «La realtà, pure quando sembra un vicolo cieco, poi offre inattese possibilità». Riusciranno a sposarsi? Il conflitto onnipresente tra la purezza dei due giovani e il conformismo ipocrita delle loro famiglie, per il quale si è sempre superiori o inferiori rispetto a qualcun altro a seconda del punto di vista, rimanda alle “trappole” pirandelliane.

L’autore fa capolino direttamente tra le righe e caratterizza bene anche i personaggi minori, tra i quali spicca Tōichirō, fratello di Momoko alle prese con le sue ambizioni letterarie. Quando si innamora, gli manca la capacità di orientamento emotivo della sorella, «ma forse chi capisce fin troppo il cuore umano non si mette a scrivere romanzi»…

A poche ore dal seppuku, prima di uscire dallo studio, Mishima lascia sulla scrivania il seguente appunto: «La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre». Marguerite Yourcenar, in “Mishima o la visione del vuoto” (Bompiani, 1982), ha così commentato questa espressione di commiato: «Frase caratteristica di tutti gli esseri tanto ardenti da essere insaziabili. A pensarvi bene, non c’è contraddizione tra il fatto che quelle poche parole siano state scritte all’alba e il fatto che l’uomo che le ha scritte sarà morto prima della fine della mattinata».

Gemma (disegni di Elisa)

Gemma Guido LIBRO

Che Gemma di libro! ~ ogni domenica su I&C

Gemma Acri Guido è nata a Cariati e cresciuta a Rossano. Ha poi cambiato casa e paese più volte di quelle in cui si è lasciata tagliare i capelli.
Dopo qualche anno nelle scuole del Cuneese, ora insegna Lettere al Liceo artistico di Ciampino. In precedenza è stata corrispondente de “Il Quotidiano della Calabria”, editor e correttrice di bozze. Le piace mangiare (anche se non si direbbe!), andare al cinema, viaggiare e camminare. Crede che i suoi genitori l’abbiano ormai perdonata per aver trasformato la loro casa in una biblioteca. E che l’ironia, i cani e la poesia salveranno il mondo. Oltre alla lettura, naturalmente!

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