Che Gemma di libro! Virdimura, la prima donna che esercitò la medicina

Una rubrica sui libri. Perché? In questo nostro tempo veloce e senza pause, rallentare è l’unica azione possibile per riappropriarci della nostra anima. E lo facciamo con Gemma, docente e grande appassionata di libri di Corigliano-Rossano, che ci aiuta con le sue letture a sgretolare qualche luogo comune del mondo culturale, raccontando in poche parole, ogni domenica, che cosa meriti almeno un’occhiata in libreria. Non perdiamoci i suoi consigli!

UNA DONNA CHE NON HA PATTEGGIATO

Nel novembre 1376 gli “augusti doctori” concessero alla dottoressa Virdimura la “licentia curandi”. Valutarono la sua abnegazione, la preparazione, le ricerche sulle epidemie. La interrogarono e la sottoposero a prove pratiche, ma soprattutto ascoltarono la sua incredibile storia. Virdimura pretese e ottenne la clausola che l’autorizzasse a curare gli indigenti e gli emarginati. Da quel momento in poi le donne non esercitarono più solo le attività tipiche delle levatrici ma anche la professione di chirurgo ed esperte in medicina generale. Virdimura perseverò ad accudire i poveri sino alla morte e lasciò alle sue allieve un’immensa eredità esperienziale. Il testo della licenza è ancora oggi conservato nell’archivio storico di Palermo.

Questo è l’epilogo dell’ultimo libro, uscito a febbraio per Guanda, del magistrato siciliano Simona Lo Iacono, alla quale va tributato il merito di aver sottratto all’oblio il ritratto della prima donna che esercitò la medicina. E, basandolo su tracce documentali, di aver dato vita a un affresco medievale, insieme poetico e struggente, delicato e intenso, della Sicilia aragonese del Trecento. L’autrice ha mescolato sulla tavolozza tutte le tinte dell’epoca, dalle più cupe alle più luminose; ha usato il linguaggio della razionalità (latinismi) e quello immaginifico dei sogni e dei presagi (dialettismi, allitterazioni), perché sono entrambi necessari agli esseri umani per interpretare la realtà.

Venuta al mondo in un giorno di pioggia e di presagi del 1302, Virdimura, capelli rossi e ricci, porta il nome del muschio che affiora tenace dalle mura catanesi, della sua nascita sa poco (scoprirà poi che la madre è morta per darla alla luce), è allevata con lungimiranza dal padre, il maestro delle scienze, che parla molte lingue, che sa che da tutto bisogna imparare: dalla natura, dalla strada, dalla poesia. Alla figlia insegna a guarire sia i corpi sia le anime (a 5 anni la piccola impara a saturare una ferita, “una spaccatura che ha solo bisogno di una carezza”), a “leggerli” gratuitamente, senza distinguere tra musulmani, cristiani o ebrei. E soprattutto le trasmette il segreto più importante: «La medicina non esige bravura. Solo coraggio». Urìa è venerato da coloro che guarisce con la chirurgia, con i rimedi medicamentosi, con l’ascolto, la compassione e la gentilezza : «Mio padre diceva che non c’erano solo le piante a fornire la cura. Ma la musica. Il ritmo. Il bagno in mare. La conversazione con i poeti. L’osservazione delle stelle. E d’altra parte, chi poteva dire cosa fosse la guarigione? C’erano corpi sani dentro cui l’anima agonizzava. E anime paghe, senza ferite, in corpi rotti» (le “regole” di Urìa le trovate alle pagine 23, 24 e 31, 32, 33 e 34). Inviso ai sacerdoti ebrei perché non osserva il complicato sistema di regole e divieti che vorrebbero imporgli, altrettanto detestato dai cristiani perché ebreo, Urìa per il resto della comunità è il perfetto capro espiatorio quando in città arriva il tifo.

Rimasta sola dopo la scomparsa del padre, avvenuta in modo misterioso in una delle ricorrenti occasioni in cui si scatena la rabbia popolare, Virdimura studia instancabilmente, in segreto visita donne (violate in tenera età) in una grotta e le opera di notte. Cresce forte e indipendente, ricostruisce casa e laboratorio a vent’anni, si circonda di altre donne (tra cui Sciabè, che sarà avvelenata insieme al figlio), come lei reiette, vittime dell’intolleranza, del predominio maschile, del potere religioso, donne che, non sempre per scelta propria, sono fuoruscite dall’angusto perimetro entro il quale è loro consentito muoversi. Sa bene di essere in pericolo in quanto donna (“infirmitas sexus”) e non allineata. La sua identità non trova collocazione nei ruoli canonici in cui sarebbe al riparo: «Chi ero? Non un medico, ché nessuna legge di Israele o del mondo aveva mai autorizzato una fimmina a farsi dutturi. Non una levatrice. Non una sposa, né una madre, o una figlia. Ero cittadina, ma anche straniera. Avevo un nome, ma nessuno voleva pronunciarlo. Ero solo una donna».

Rifiuto e disgusto destano il contatto, senza permessi prescritti, con la morte, le polveri e le erbe, ma soprattutto il fatto che a somministrare rimedi per i mali fisici e psichici sia una donna. Arrestata, incarcerata in condizioni disumane, interrogata come una criminale, sospettata di vicinanza con il demonio, Virdimura vede tornare dal passato felice Pasquale de Medico, figlio di Josef. L’amico d’infanzia, dopo un lungo apprendistato in Oriente, anche lui medico, garantisce (lui, uomo) che lei/donna non sia strega o prostituta. Torna al suo fianco per restarle accanto sempre (“arrotolando” i piedi sui suoi), alleato amorevole, forte e fedele contro tutti gli attacchi della sorte.

La scrittura evocativa e sensoriale dell’autrice non lascia scampo alle emozioni, tutto quello che prova la protagonista noi lo sentiamo, specie il rapporto con Urìa e Pasquale, figure maschili tridimensionali di cui si può toccare il cuore. Moriranno entrambi di peste, dopo essersi completamente dati a Virdimura e al prossimo («Curare allunga gli anni più che essere curati, si guarisce solo facendo guarire»).

Ma c’è un’altra grande protagonista in questo vividissimo racconto in prima persona, descritta in maniera sublime a pagina 18, Catania: «si dibatteva tutta tra la montagna di fuoco e il mare. Era come un animale immenso e travagliato, sul cui dorso, fitto di lapilli, si affaticavano li popoli umani». Traboccante di vita di morte e di dolore, fiera coraggiosa e carismatica come Virdimura, la città combatte i pregiudizi e le leggi degli uomini, per affermare il diritto di tutti a essere curati e delle donne a essere libere.

Circa un mese fa, mia madre mi ha ricordato che sono stata concepita a Catania.

Gemma

Gemma Guido LIBRO

Che Gemma di libro! ~ ogni domenica su I&C

Gemma Acri Guido è nata a Cariati e cresciuta a Rossano. Ha poi cambiato casa e paese più volte di quelle in cui si è lasciata tagliare i capelli.
Dopo qualche anno nelle scuole del Cuneese, ora insegna Lettere al Liceo artistico di Ciampino. In precedenza è stata corrispondente de “Il Quotidiano della Calabria”, editor e correttrice di bozze. Le piace mangiare (anche se non si direbbe!), andare al cinema, viaggiare e camminare. Crede che i suoi genitori l’abbiano ormai perdonata per aver trasformato la loro casa in una biblioteca. E che l’ironia, i cani e la poesia salveranno il mondo. Oltre alla lettura, naturalmente!

Una risposta

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli correlati: