Fragilità, limiti, debolezze, fatiche, ansie, paure sono solo alcune delle dimensioni umane con le quali stiamo facendo i conti in questo momento, portati in superficie da un movimento di incertezze che fa tremare le strade asfaltate di certezze. È questo l’impatto che l’emergenza Covid19, ormai per tutti Coronavirus, sta avendo sulle vite di tutti noi.
Il certo si scontra con l’incerto, il discontrollo con il controllo, l’instabile con lo stabile. Tutto ciò che non riesce ad essere governato genera un sostanziale senso di inquietudine.
Risalendo nella scala genealogica, i nostri ancestrali progenitori, fin dalla notte dei tempi, si sono ritrovati a gestire situazioni inspiegabili e impreviste, di cui non avevano mai avuto esperienza prima.
L’uomo, pertanto, ha dovuto acquisire pian piano una dotazione specifica per poter far fronte alle sfide della quotidiana contingenza. Ha cercato di trovare modalità basilari quando ancora era lontano il pensiero di un codice linguistico condiviso. Ha capito fin da subito che da solo non sarebbe andato troppo lontano, che per salvare la prole, doveva apprendere il linguaggio del suo corpo e attivare un codice di comprensione anche per chi gli stava attorno. Così le emozioni hanno fatto la loro comparsa nella sfera individuale e sociale. L’esperienza emotiva si percepisce in primis a livello corporeo, solo successivamente, con lo sviluppo del linguaggio, si acquisisce quella umana competenza sociale di dare ad essa un nome. Le emozioni hanno così creato connessione e condivisione, esprimendosi in variegate forme comportamentali, socialmente condivise.
Tutto ciò che avviene passa attraverso le emozioni, ognuna esiste per una sua precisa e funzionale ragion d’essere nel kit di sopravvivenza di cui l’uomo è stato dotato.
Le emozioni rappresentano così il linguaggio universale per eccellenza, condiviso da tutti gli uomini della Terra. Data la loro specifica manifestazione, esse possono innescare un peculiare effetto domino.
Di per sé le emozioni hanno una valenza neutra, innescano dei meccanismi tali per cui la persona attiva le proprie risorse per mettere in moto gli adeguati comportamenti.
L’ansia è una naturale risposta del nostro organismo ad una qualsiasi situazione percepita come stressante, attivando un meccanismo di allarme qualora si percepisca, direttamente o indirettamente, una situazione incerta e indefinita come potenzialmente pericolosa. Di tutta risposta, l’ansia può preparare la persona all’azione o alla fuga. Fino a livelli ottimali l’ansia si presenta funzionale alla gestione della situazione. Quando, però, diventa eccessiva può generare uno stato di compromissione della capacità di rispondere in modo adeguato alla contingenza. Si crea in questo modo uno stato di inquietudine, ipervigilanza e tensione generale, fino a sfociare in vere e proprie espressioni eccessive e sproporzionate.
La paura, a differenza dell’ansia, rappresenta uno stato emotivo che si attiva di fronte ad un oggetto specifico, reale o immaginario, percepito come minaccia, che genera uno stato di ansia e insicurezza. Ha una valenza circoscritta ed è condizionata da aspetti personali di vulnerabilità.
Oltre alla soggettività, occorre tenere presente il contesto socioculturale nel quale si vive, che veicola la percezione di pericolosità.
Quando l’ansia o la paura raggiungono livelli intensi e incontrollabili possono scatenare il panico. Tutto il pensare si volge verso una dimensione prospettica rivolta al futuro, dove convergono la percezione di un pericolo imminente e incontrollabile, l’indeterminatezza della situazione, l’ansia anticipatoria di non essere in grado di fronteggiare la situazione e quella di avere poco tempo a disposizione per sfuggire al pericolo e salvarsi. Il pericolo del panico consiste proprio nel suo inesorabile effetto impetuoso, che può coinvolgere un numero enorme di persone, quando la situazione sfugge al controllo della ragione, sfociando in comportamenti impulsivi che potrebbero risultare pericolosi per sé e/o per gli altri.
Queste considerazioni sono necessarie. Ci permettono di riflettere sul fatto che ogni emozione, pur avendo una fondamentale valenza funzionale nel percorso evolutivo della specie umana, se non viene mediata dalla razionalità, può generare effetti a livello sociale, sfociando in vere e proprie paure collettive veicolate.
Il senso di instabilità, sotteso alla paura e all’impotenza sperimentata, di fronte all’evento stressogeno verso il quale si attiva la percezione di non controllo, può innescare un meccanismo deleterio di ricerca di un capro espiatorio verso il quale scaricare la propria frustrazione. Questa ricerca di qualcuno o qualcosa da condannare è l’espressione esterna di una irrazionalità che agisce sulla realtà, con l’illusione di poter mantenere una certa estraneità ai fatti e una personale integrità.
Mettersi, quindi, in lontananza per non dover rispondere in prima persona e assumersi la responsabilità di volere, potere e dover fare qualcosa.
La minaccia di qualcosa che c’è ma non si vede, che potrebbe riguardarmi o anche no, è proprio il denominatore dell’ansia, che si riesce a tenere a bada solo con la percezione della distanza o negandola.
Finché qualcosa riguarda gli altri, possiamo sentirci immuni e invincibili. La prospettiva cambia quando il pericolo è alle porte. Allora quello che si percepiva lontano e degli altri, ad un certo punto si materializza, diventando vicino e anche nostro.
Crolla quel fortino di certezze su cui si costruiscono le esistenze, ritrovandosi vulnerabili, privi di difese, di fronte alle proprie fragilità. Questa vulnerabilità induce a stringersi sempre di più in un nucleo dove l’io implode nel proprio territorio, perdendo di vista il senso prossimale dell’altro, con l’azione diretta solo in quella piccola porzione di campo che si pensa appartenergli. Non riuscire a vedere l’altro nel proprio raggio di azione costringe a percepirsi come isole, piuttosto che come arcipelaghi. L’uomo esiste solo incontrando il proprio simile.
Una forza da sola si annulla se nella sua traiettoria non incontra altre forze.
Per questo, come un virus isolato si autoannulla se non ha modo di propagarsi al suo passaggio, così l’impegno e l’unione di tante persone, di un popolo diventa forza che resiste e non si arrende. Ù
Perché il coraggio non si muove in assenza di paura, ma arruolandola come guida alleata gestita da raziocinio, responsabilità, giudizio e buonsenso in prospettiva di un bene. Avere coraggio vuol dire avere cuore, ovvero quella forza morale che si fa avanti nelle difficoltà non senza sacrificio.
Nietzsche ha affermato che i valori sono qualcosa che l’umanità ha realizzato con grandi fatiche e grandi sofferenze, fanno parte della storia umana, e se non si nutrono e non si proteggono finiscono per perdersi, tramontando insieme alle culture che li hanno coltivati.
L’umanità non può permettersi di perdere ciò che le ha permesso di arrivare fin qui: le emozioni, i sentimenti, le facoltà mentali, i valori, le relazioni, ciò che di buono ha costruito. Per questo consapevoli del senso di fragilità che ci accomuna, impariamo dalla natura che una canna ha il suo spazio, può piegarsi ma non spezzarsi; trovare appoggio tra le canne vicine quando il vento soffia più forte e le forze sembrano venir meno. Vuole rimettersi in piedi e per questo non si arrende. Nessuna tempesta dura per sempre.
Teresa Carmen Gagliardi (Psicologa e Psicoterapeuta)