EDITORIALE. Contro il femminicidio tutti facciano la loro parte, soprattutto gli uomini

Giulia Cecchettin e Giulia Tramontano non hanno solo lo stesso nome, condividono la stessa sorte. E noi donne lo sentivamo dall’inizio, non ci serviva il ritrovamento del corpo inerme. Ogni volta che scompare una donna, ogni volta che viene uccisa, pensiamo a un compagno. Aver avuto tutte questo pensiero ci dà idea della dimensione del problema, ci ricorda la drammatica realtà che viviamo ogni giorno.

Ogni giorno noi donne abbiamo paura di essere stuprate, molestate, picchiate e uccise. Viviamo la nostra vita in relazione alla violenza maschile, al potere limitante degli uomini nella nostra esistenza, che abbiamo ormai normalizzato. Negli ultimi anni in Italia il numero di omicidi è calato, mentre è rimasto costante quello di donne uccise dal partner o dall’ex partner (23% degli omicidi commessi nel 2021, 10% nel 2004 – dati Istat).

Il movente è spesso legato alla separazione: l’uomo è incapace di sopportare un abbandono, di tollerare la fine di una relazione, di concepire l’altro sesso come meritevole di vita propria e libero arbitrio. La sua incapacità mentale ed emotiva sfocia in vendetta. L’uomo ha un problema col possesso, con il rifiuto, risulta incapace di accettarlo e lo dimostra col catcalling, con la violenza sul lavoro e lo stupro, prima di arrivare all’apice dell’escalation: il femminicidio.

Michela Murgia in un articolo di Repubblica del 2020 sosteneva che il femminicidio è un processo di negazione e controllo in molti ambiti come quello fisico ed economico e perciò, avviene molto prima che una donna muoia. La criminologa statunitense Diana Russel lo definisce ‘’una forma di punizione e controllo sociale sulle donne’’.

Quando cerchiamo di scardinare questa escalation patriarcale che porta alla violenza di sangue – l’unica violenza socialmente riconosciuta – noi donne veniamo fermate, accusate di esagerazione, colpevolizzate: ‘’È solo una battuta, è la gonna troppo corta, l’hai istigato tu’’. La matrice culturale di tale fenomeno non è riconosciuta nemmeno di fronte a tali percentuali: il 94 % degli omicidi è commesso da un uomo (Fonte Onu). Dall’Istat apprendiamo che le donne sono condannate per omicidio nel 3.4% dei casi totali di omicidio e nel 1.7% dei casi di omicidio in ambito familiare/affettivo; gli uomini commettono il 96,6% degli omicidi totali e il 98,3% degli omicidi in ambito familiare/affettivo; le donne uccise in ambito familiare/affettivo sono il 91% del totale delle donne vittime di omicidio.

Nonostante la realtà oggettiva dei dati statistici alcuni uomini e ancor più grave alcune donne, si indignano di fronte alla parola femminicidio, diffusasi alla fine degli anni Novanta per inquadrare e spiegare un fenomeno in netta espansione. La donna stava iniziando a disporre della libertà e come sempre a caro prezzo. L’uomo non aveva e non ha avuto gli strumenti per accettarlo, tant’è che in diretta tv abbiamo sentito parlare del passato con termini salvifici, in quanto Giulia non avrebbe lasciato l’ex, lo avrebbe sposato, rimanendo forse viva (fuori) e relegata al ruolo a cui l’uomo vuole relegarla. Follia.

Negando la necessità della parola femminicidio si nega la natura culturale del problema, anzi, si dimostra. Ci viene in aiuto ancora una volta la Murgia: ‘’Il termine femminicidio non indica il sesso della persona morta, indica il motivo per cui è stata uccisa’’.

Davanti alle notizie relative ai femminicidi si innescano troppo spesso meccanismi di difesa/attacco, inizia l’asserzione di violenza anche da parte delle donne, reale ma non minimamente rapportabile all’incidenza sistematica e di tipo strutturale maschile. Di fronte alla realtà tangibile di una donna morta ogni tre giorni l’uomo risponde discolpandosi, mentre sarebbe meglio prenderne atto e chiedersi cosa possa fare in quanto uomo e quindi in posizione privilegiata, per far sì che questo non si ripeta. Perché come dice sempre la Murgia: ‘’Nessuno è innocente, se crede di dover rispondere solo di sé’’. 

‘’Not all man’’, non tutti gli uomini sono così, sostituisce il mea culpa, è indice di mancanza di responsabilità comune, senso di comunità e umanità. La mattanza non si fermerà con la clausura o la colpevolizzazione della vittima, la mattanza si fermerà nel momento in cui l’uomo riconoscerà il vantaggio che possiede nella società patriarcale e lo userà per le donne e non contro le donne.

«A partire dagli anni Settanta – afferma il filosofo Umberto Galimberti – è cominciato in Italia un processo di emancipazione della donna, e quando le donne si emancipano sconvolgono il modello che i maschi hanno nella testa, che è il modello in cui le donne devono essere subordinate agli uomini». Parlando nella fattispecie dei femminicidi, aggiunge: «Noi siamo persuasi che la gente in quelle circostanze agisca in preda a un raptus. Il raptus è fantapsicologia, non esiste. Esiste invece il comportamento, una mancata educazione, una mancata cultura, uomini che crescono come bestie. E qui c’è una una biografia, non un raptus a determinare questi atti».

Gli uomini hanno quindi bisogno di una maturazione emotiva e degli strumenti per svilupparla. C’è un bigliettino lasciato a Giulia: ’’Io prometto di non essere mai come Filippo’’. Quante volte ci si rivolge ai bambini dicendo: ’’Non comportarti da femminuccia’’. Il linguaggio è importante, ha il potere di formare e cambiare il pensiero. I maschi godono dei privilegi del patriarcato ma ne sono vittime anche essi: si richiede loro di esser performanti, aderenti perfettamente allo standard di forte che non piange e non chiede aiuto. Niente di più sbagliato, spiana la strada all’incapacità di gestire le proprie emozioni, non riuscendo nemmeno a conoscerle.

Urge un’opera di educazione affettivo-sessuale massiva e completa, non si può parlare di ri-educazione perché non c’è mai stata. Dobbiamo chiedere e pretendere dallo Stato un apporto psicologico, il controllo continuativo della salute mentale sia in ambito lavorativo che scolastico, superandone il tabù. Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, anche i media che disumanizzano i carnefici definendoli ‘’mostri’’ e non uomini, allontanandoli consapevolmente o inconsapevolmente dalla responsabilità che ognuno di noi ha di agire e scegliere.

Questa educazione deve essere globale e universale, e il percorso seppur avviato – e non lo è – richiede tempo; dobbiamo quindi continuare a cogliere le avvisaglie quando e se si presentano. Ci sono delle ‘’red flags’’ – concetto utilizzato per far riferimento alle caratteristiche di una persona che vengono percepite come manipolatorie, tossiche o dannose – che dobbiamo imparare a conoscere: ‘’Se mi lasci mi ammazzo’’.

Il piano educativo alle relazioni presentato dal ministro Valditara e dal Governo non basta. In una cultura patriarcale in cui l’insegnamento primario è sopprimere le proprie emozioni e che essere respinti, commettere errori non sia normale ma inammissibile, noi forniamo un progetto extracurriculare, facoltativo, su base volontaria dei singoli istituti, 30 ore all’anno e solo per le superiori previo consenso dei genitori.

Non può continuare a essere discrezionale avere un rapporto sano con le emozioni, soprattutto con quelle negative. In una cultura che insegna alle donne a essere pazienti, ad accogliere missionarie tutto, a non sentirsi abbastanza senza un compagno, non può e non deve continuare a essere discrezionale far capire loro che nessun uomo è in diritto di stabilire cosa possono o non possono fare, magari anche in un bel video che diventa virale, apprezzato e normalizzato.

È avvilente uno Stato che davanti a 1 donna su 3 che ha subito violenza risponde con un opuscolo per indicarle i segnali di un potenziale partner violento e al ‘’maschietto’’ i comportamenti punibili per legge. Per legge. Io non vado a 130 km/h perché farei del male a me e alle persone, non per la multa.

Entrambi i sessi devono interiorizzare quanto possibile un’immagine sana dell’amore sia in famiglia che nelle scuole, poiché verrà poi riproposta nelle relazioni: “Quando giustifichiamo i suoi malumori, il suo cattivo carattere, la sua indifferenza, o li consideriamo conseguenze di un’infanzia infelice e cerchiamo di diventare la sua terapista, stiamo amando troppo; quando la relazione con lui mette a repentaglio il nostro benessere emotivo, e forse anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando troppo” (da Donne che amano troppo, Robin Norwood).

Evitare l’ultimo appuntamento non è sufficiente; non siamo sempre in compagnia. Non sempre denunciare è sufficiente; non veniamo tutelate. Dobbiamo mettere le donne in condizione di chiedere aiuto, servono leggi a reale protezione che le facciano sentire sicure e non giudicate. Si nota poca capacità nel riconoscere la violenza, non vengono monitorati i reati spia come lo stalking, i rischi sono spesso sottovalutati, le donne sono svalutate e le risposte sono lente; quando ci riferiamo ai femminicidi come ‘’omicidi di Stato’’ ci riferiamo soprattutto a questo.

Alcune delle numerose testimonianze sotto al post instagram della Polizia di Stato contro la violenza sulle donne

Tutto ciò deve cambiare, polizia, avvocati, magistrati e giudici devono smetterla di pensare come chi compie il reato, devono smetterla di alimentare un sistema di regole create dagli uomini per gli uomini (Erba, getta l’acido in faccia all’ex fidanzata di 23 anni: lei lo aveva già denunciato 3 volte – 21 novembre).

Chiediamo e pretendiamo Giustizia di Stato. E ancora una volta, il mio appello è scegliere bene i rappresentanti. L’educazione sessuale e affettiva è parte dei programmi curriculari di quasi tutti i Paesi europei fin dalle elementari, fa eccezione l’Italia e pochi altri Stati. A ottobre il deputato Sasso (Lega) liquidava la richiesta di introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole da parte del M5S, definendola “nefandezza e porcheria inaccettabile”; l’attuale governo nell’ultimo anno ha tagliato del 70% i fondi per le iniziative sulle violenze di genere; sei mesi fa Lega e FdI si sono astenuti sulla Convenzione di Istanbul.

Quando non siamo ubriache e/o sotto effetto di droga, quando non abbiamo la gonna troppo corta o il seno scoperto e non possono colpevolizzarci – noi vittime – passano a un’altra figura femminile: la madre. Per Simonetta Matone (deputata della Lega ed ex Magistrata) i colpevoli di femminicidio “hanno modelli materni diseducativi”, madri “disturbate” che non reagiscono alle violenze in casa (affermazioni pronunciate in programma Rai, servizio pubblico).

Nell’attesa che anche le Istituzioni facciano la loro parte, facciamo la nostra. Iniziamo a riprendere l’amico che sceglie cosa può indossare la ragazza, il fratello che non permette alla moglie di lavorare. Sradichiamo le convenzioni sociali secondo cui la fine di un matrimonio è un fallimento. Il coraggio di lasciarsi e ricominciare – evitando l’esasperazione di un rapporto e le sue conseguenze – manca anche per il continuo chiacchiericcio che si sentirebbe nei paesini gretti come i nostri. Stereotipi e insane frasi fatte (‘’te la sei cercata’’) creano terreno fertile al femminicidio. Educhiamo i figli alla parità di genere, insegniamogli a indicare i propri limiti e a rispettare gli altrui (Torino, a 16 anni rifiuta il ragazzo che la corteggia; lui la perseguita, l’aggredisce più volte e tenta di strangolarla – 21 novembre).

Il tempo scorre inesorabile, le cose diventano obsolete. La voglia di nuovo, il tecnologico che incombe e il laconico desiderio per il superfluo, hanno stabilizzato il concetto per cui, quasi tutto, è riciclabile e riutilizzabile. A questo aggiungiamo il continuo addomesticarsi, per seguire la tendenza madre, che di volta in volta e per canoni sempre differenti fa il giro del mondo in poche ore, finendo per annichilire ogni eterogeneità, spingendo sempre più sull’acceleratore affinché si sia forti, imbattibili e quindi violenti. Squadre e squadre, di esperti senza volto, si levano all’alba in luoghi sconosciuti, da postazioni remote, senza obbligo alcuno di mostrare una progettualità o una credibilità, con il fine ultimo di fare cassa. Arrivano con proposte, raramente etiche, nelle nostre case, nei nostri cervelli, nelle nostre mani, si impossessano dei nostri figli, con il nostro distratto assenso. Questo visone alterata della realtà, spodesta costantemente tutto ciò che è sacrifico e conquista. Mi preme sottolineare che, svariati sondaggi, ci trovano sempre più poveri, sempre più in guerra e sempre meno avvezzi alle sconfitte o alle rinunce, quindi fragili, vulnerabili. Consigliabile conferire titolo a qualche lieve revisione, a non essere adepti, a vegliare acché i nostri figli non divengano affiliati. Puntiamo su qualche deciso rifiuto ad eseguire comandi, insomm torniamo a pronunziare un semplice, no, ad essere meno proni. Adoperiamoci a che ascoltino musica vera, non accettiamo che nelle loro camerette, troppo buie e troppo chiuse, arrivino sinuose bisce, pronte ad abbandonare squame di pellame infetto e deviante. Certo, se chi di dovere, passasse al setaccio, i testi violenti e maschilisti, non guasterebbe e soprattutto lavoreremo tutti nella stessa direzione.

Tanto si sono radicate le parole riciclo e riutilizzo che in maniera continua e numericamente crescente le si è incoronate a giurisprudenza applicativa, come se si fosse a dar esecuzione ad una sentenza passata in giudicato, si procede a una mattanza di vite, nel dettaglio a mattanza di donne e bambini. Dismettere esistenze, per molti, per troppi, è divenuto quasi cosa compatibile con il quotidiano, come se tutto fosse lieve, perché tanto verrà riciclato o riutilizzato in altre filiere, per non dire in altri mondi. Ovviamente non chiediamo più permesso, non agiamo nell’ambito del reciproco, tutto ciò che dovrebbe essere affine con rispetto e educazione è superfluo, per non dire da dementi e sfigati.

Più volte al giorno, quando ne ha modo e tempo, mio figlio Davide, mi si avvicina si china per raggiungermi e mi dice: “Dammi un bacio e te ne do due”, io prontamente eseguo e lui contraccambia, rispettando la tenera proposta contrattuale che mi ha avanzato. Per tanto, per troppo tempo mi sono egoisticamente goduta queste effusioni e queste parole e le ho tenute per me, senza coglierne la valenza e la portata effettiva. Da poche settimane questa frase me la ripeto e la ripeto alle persone che mi circondano, mi sono convinta e per tal ragione sono a scriverne, che si può partire da qui. Si potrebbe partire da tanto altro, io da mamma destinataria della proposta, speranzosa, desidero partire da qui.

Più volte ho detto che la mano sporca di sangue di un uomo, una donna stroncata perché assimilata ad oggetto da possedere e da dismettere, non sono cosa che riguardano l’assassino, la vittima e le loro famiglie, sono femminicidi, a cui, per distrazione, per incredulità e in taluni casi per comodità, abbiamo fornito acqua nei momenti di siccità. L’abbiamo è plurale maiestatis, seppur nessuno, in quanto componente di una società, dovrebbe a mio avviso, avere l’esigenza di discostarsi, bensì la premura di accostarsi e di adoperarsi.

Le mamme, le sorelle, le amiche, anche i padri, ma soprattutto noi mamme, sappiamo tutto dei nostri pargoli, ne annusiamo ogni propensione e ogni cambiamento. Anziché fare le classiche suocere ficcanaso, solo nella parte lecita ed ufficiale della vita dei nostri figli, iniziamo a tirar fuori gli attributi sempre, non ritiriamoci in garitta quando abbiamo sentore di acque torbide. – Dammi un bacio e te ne do due- lo suggerisco come il mantra di ogni sera e di ogni mattina, dobbiamo inculcargli che questo è l’unico modo per approcciare a qualsiasi donna, che sia fidanzata, moglie, compagna, amante, sorella, amica. Se l’invito al bacio non viene accolto bisogna alzare i tacchi e andarsene.

Cresciamoli a pane e rispetto, a latte e accettazione del rifiuto, a pasta asciutta e capacità di convivenza, a bistecca e baci, a cioccolata e carezze. Ogni altro gesto e modo di rapportarsi è contraffazione del nutrimento, è infestante per ogni forma di alimentazione, sanzionabile perché in violazione palese con la normativa vigente e soprattutto in contrasto con la libera esistenza di ognuno. Non cresciamoli a pane è onnipotenza, a pasta asciutta e soldi, a bistecca e sei il più bello, a cioccolata e quella lì non è per te, tu meriti di più!

Molti dei nostri figli possono avere problemi o patologie, dobbiamo accettarle e seguirle insieme a specialisti, non attrezziamoci e non attrezziamoli a celare. Molti dei nostri figli sono vittime di quello che noi abbiamo lasciato che la società ci vendesse per buono, per appetibile e per identificativo, dobbiamo ammettere la sconfitta e iniziare a invertire la rotta. Se continuiamo a tenere i remi in barca per vigliaccheria, il battello andrà alla deriva, ogni tragetto andrà alla deriva e finiremo per trovarci, noi stesse e le nostre figlie, in un mare insicuro che non permetterà né più la balneazione, né tanto meno accetterà che si levino ancore per mete nuove e libere. Care donne e colleghe madri, rimbocchiamoci le mani, non demandiamo, la radice del tutto è nelle pareti domestiche, spesso le imbianchiamo di vernice scadente per risparmiare, nulla di ciò che è facile è economico e, nulla di ciò che è gratis porta alla civiltà vera, alla serenità e alla vita libera da cappi. Perché ci sia un domani, abbiamo il diritto-dovere di liquefare i troppi imbasti che popolano l’oggi.

Che le donne abbiano a salvare le donne! E che ogni preposto abbia a fare il proprio dovere scupolosamente, mettendo a conto, se non bastasse il già avvenuto, che il figlio e la figlia coinvolti non saranno sempre e solo degli altri! (Dammi un bacio e te ne do due. Le prime donne che “toccano” siamo noi mamme – di Cesira Donatelli, riflessione mandata al nostro giornale)

La famiglia di Giulia Cecchettin sta dichiarando la volontà di non rendere vano il sacrificio della figlia, perseguendo una progettualità educativa. Questa direzione è l’unica a poter salvare nuove possibili vittime ma anche nuovi possibili carnefici. In piazza devono scendere gli uomini, a chiedere scusa e a chiedere aiuto.

Virginia Diaco

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