Editoriale. Due anni dalla morte di Gino Strada, esportatore del diritto alla salute e pertanto sconveniente alla Calabria

Due anni fa ci lasciava Luigi Strada, detto Gino, un medico, attivista, filantropo e scrittore italiano, fondatore, assieme alla moglie Teresa Sarti, dell’ONG italiana Emergency. Questa è la definizione che troviamo di Gino. Dargliene una però, è molto riduttivo. Gino è stato un esportatore di diritti, primo fra tutti quello alla salute. C’è riuscito come chirurgo nelle zone di guerra, lavorando nel Comitato internazionale della Croce Rossa in Pakistan, Etiopia, Perù, Afghanistan, Angola, Somalia e Bosnia-Erzegovina. Ed era disponibile anche per la nostra di zona disagiata, la Calabria: “Abbiamo finito – dichiarava Strada alla Stampa, durante il periodo Covid – abbiamo dato la nostra disponibilità anche a prendere in mano la gestione di diciotto ospedali chiusi ma per ora non ci ha risposto nessuno. Ospedali chiusi ufficialmente per ragioni di budget, ma al solito perché si è preferito sostenere la sanità privata. La gente ha perso la speranza di rivedere una sanità pubblica che funzioni. E poi ci sono le infiltrazioni della criminalità organizzata. Diciamo che sono strutturali più che infiltrazioni”.

Ci pioveva dal cielo un Salvatore che non si professava tale: «Non siamo qui per combattere la ‘ndrangheta, ma per curare le persone», diceva. Ma noi non ne avevamo bisogno. Difatti, l’allora presidente della Regione, Nino Spirlì, si esprimeva così a riguardo: «Non arriva la nomina di Strada perché dovranno passare sul mio corpo per fare le nomine, non abbiamo più bisogno di commissari. Se arriva Strada – aggiungeva – ne prendiamo atto, dopo il tris facciamo poker. La Calabria – ha poi detto Spirlì – non è l’Afghanistan, è una regione dell’Italia e come tutte le altre regioni ha il diritto di governarsi come si governano tutte le altre. Non abbiamo bisogno di missionari di nessun tipo».

Parlando della sanità calabrese, non poteva che adottare la metafora di un gioco d’azzardo: il rischio c’è stato tutto, sulla pelle dei cittadini, e vi continua ad essere, con o senza commissariamento, adesso e prima di Occhiuto alla sanità, adesso, prima e durante il Covid. Un’intera popolazione – quella longobucchese – senza un reale presidio durante il periodo di isolamento dovuto al crollo del viadotto Ortiano 2. Una fascia ionica – da Cariati a Rossano, comprendendo tutte le zone dell’entroterra abitate prevalentemente da anziani, senza un medico di guardia fisso e senza un punto di primo intervento degno di tale denominazione.

Ambulanze che la Lombardia doveva rottamare e che la Calabria ha comprato – che chiamate da Pietrapaola, Mandatoriccio o Calopezzati, arrivano da Trebisacce, senza personale medico a bordo. Visite salvavita che tramite sistema sanitario nazionale puoi effettuare dopo due anni dall’avvenuta richiesta. Viene da sé l’assenza di prevenzione. La condizione psicofisica del personale ospedaliero che ancora per poco sceglie di rimanere – forse costretto da fattori esterni – qui nella nostra Regione, con tutte le conseguenze negative del caso, stremato, aggredito e costantemente sottoposto all’arte di arrangiarsi con presidi medici di fortuna e con dinamiche dall’alto e interne alquanto discutibili.

Ci dicono che dobbiamo essere orgogliosi dei traguardi che la Calabria sta raggiungendo, e chi non lo è viene tacciato di irriconoscenza, ingratitudine, superbia, avversione aprioristica per orientamento politico. L’invito alla soddisfazione viene propinato in ogni divulgazione delle grandi opere di depurazione mediatica. Io sono fieramente delusa e disillusa. Ad ogni taglio di nastro per una strada che torna ad essere percorribile dopo anni, ad un reparto che scongiura la chiusura, all’arrivo di una strumentazione per mera scena in quanto manca il personale preparato al suo utilizzo… la mia reazione è nausea e incontrollabile bile.

Mi chiedo cosa abbiano da festeggiare, per un minimo sindacale nemmeno garantito ma solo apparentemente sfoggiato. Mi vergogno di una Calabria straordinaria depredata. Straordinario è il nostro patrimonio culturale consapevolmente svalorizzato e reso morto come noi. Come noi calabresi che gioiamo davanti alla parvenza di una normalità. Siamo in una terra in cui si regala un cesto di cibo a Natale e Pasqua al medico che non ci ha fatto morire, per il resto dei nostri giorni. Siamo in una terra in cui ci sentiamo perennemente in obbligo con chi ci ha dato il lasciapassare per essere visitati in Pronto Soccorso, mentre i comuni mortali attendono finché possono. E per quanto ci si voglia discostare da questa dinamica immorale, intrisa di sensi di colpa per chi è ancora umano, per sopravvivenza ci si rimane invischiati. E lo insegni a tuo figlio, che il sindaco t’aiuta, se gli porti i voti. E lui lo insegna a tuo nipote, che se fa gratuitamente il suo lavoro a Tizio, questo per la nonna avrà un occhio di riguardo in ospedale, anche se è vecchia. E se la nonna muore, Caio ti aspetta per la causa, la causa che è a te stesso che non ti sei ribellato al sistema, che non hai portato via la famiglia da questa mercificazione della vita, lontano dall’arte di elemosinare diritti.

Tutto ciò per noi è normalità, talmente abituati che ci accorgiamo non lo sia solo quando andiamo altrove. Altrove che non è nemmeno tanto a Nord. E quando sei in questo altrove comprendi che in una terra normale, chi fa il proprio dovere non è un eroe da premiare, è una persona che semplicemente fa il proprio dovere, dovere per cui è pagato. Capisci che non c’è notizia quando un reparto riapre, perché la normalità era che fosse aperto sempre e perfettamente funzionante. Capisci che uno dei grossi errori mai compiuti in Italia – perché di Italia si può unicamente parlare – è stata l’infiltrazione politica nella sanità, prima che mafiosa.

Non parlo ai politici, vorrei parlare ai cittadini di cui invidio il piacere di fronte ad una delle tante passerelle. Come fate ad essere felici di non aver ottenuto niente? Perché noi calabresi non abbiamo ottenuto niente, solo parole che puntualmente il vento porta via. Come queste che scrivo. Le parole che sto scrivendo non risolvono le mancanze della sanità, ma possono eliminare quelle della popolazione. La mancanza più grande della nostra popolazione è la vergogna. Una vergogna sincera per le nostre condizioni al di sotto della normalità. La sana consapevolezza di vedersi valutare la vita in modo diverso rispetto ad altre realtà italiane, resa possibile proprio dal peccato originale che espiamo ogni giorno: sentirci noi stessi meno meritevoli di altri. Ci vergogniamo delle nostre radici, dei nostri tratti caratteristici, dell’inflessione dialettale. E non ci vergogniamo dell’unica vera vergogna di cui siamo macchiati a sangue e lacrime: la svalutazione della nostra esistenza.

Il popolo calabrese c’è durante le manifestazioni politiche per fare incetta di voti, perché siamo prede facili in quanto soggetti alla dimenticanza: abbiamo imparato che la sopravvivenza significa mettere da parte la nostra dignità di uomini, di persone, vendendo un diritto per un altro. Non importa quindi se il partito che voto auspica l’autonomia differenziata e di differenze nord-sud ce ne siano già abbastanza. Non fa nulla se il partito che sostengo gridava, agiva e agisce seguendo il motto “Prima il Nord”. E di altro taccio per buongusto.

Non importa perché noi siamo abituati alle briciole non avendo più fame. Ci siamo abbandonati al destino, definendolo tale per non sentire l’importante peso delle nostre azioni e scelte.

I diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli privilegi”, predicava e razzolava Gino. Basta a spiegare il perché alla Calabria non conveniva la sua presenza, e ”convenire” è proprio il termine giusto, è proprio nostro. E siccome non siamo nell’Italia che vorrei, ritorniamo alla politica ma in realtà non l’abbiamo mai lasciata. Il centrodestra, in Lombardia, ha pronto soccorso a pagamento: al Policlinico San Marco di Zigonia, nella civilissima Bergamo, con soli 149 euro puoi saltare la fila, anche in caso di prestazioni sanitarie che sarebbero identificate come codice verde o bianco (cosa che normalmente ed eticamente dovrebbe comportare ore di attesa prima di una visita). Si riceve così assistenza immediata.

Voi mi direte, cosa c’è di nuovo? Da noi si chiamano piaceri, il centrodestra in Lombardia li “legalizza”. Almeno chiamano le cose con il loro nome, hanno consapevolezza. D’altronde, siamo verso l’inevitabile sanità privata. Chi avrà i soldi, potrà curarsi. Il valore della vita non sarà nemmeno più questione di provenienza geografica quanto quello che si guadagna.Non permettergli mai di ridurti a pensare che vali solo quello che ti pagano”, ha scritto Michela Murgia.

E Michela Murgia anche morente ci ha spiegato ancora una volta a cosa serva il servizio sanitario nazionale, in termini di cura e di prevenzione, costosissima, asserendo di essere sottoposta ad un’immunoterapia a base di biofarmaci, seguita a casa, con un costo che si aggirerebbe sui 9.600 euro. Un privilegio per l’autonomia differenziata di Calderoli, qualcosa di già visto in pandemia con il mercato delle bombole d’ossigeno, lezione costretta a ripetersi senza impartire insegnamento, anzi, con l’aggravante della recidiva.

Si è ritornati in Italia finalmente a parlare di sanità pubblica, cosa che era stata messa da parte per molti anni. La lotta che stanno facendo a Cariati – n.d.r. occupazione dell’Ospedale Vittorio Cosentino –  è una dimostrazione di questo e credo che sia una lotta che vede coinvolta la popolazione”, pronunciava Gino Strada nel docufilm “C’era una volta in Italia – Giacarta sta arrivando” (2022, film autonomamente finanziato).

E mentre si sparano coriandoli in mezzo alle macerie, spumanti e vestiti eleganti annessi, con noi spettatori e compartecipanti del disastro, Murgia e Strada si rivoltano nella tomba, più vivi che mai. Perché i morti siamo noi omertosi, senza più dignità.

Virginia Diaco

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