EDITORIALE. Primo maggio, senza lavoro non c’è vita

Oggi è il Primo Maggio. Festa dei Lavoratori, dice il calendario. Ma per troppi, questa giornata suona stonata, amara, quasi offensiva. Festeggia chi ha un lavoro, certo. Ma gli altri? Chi si sveglia ogni giorno senza una meta, chi ha un curriculum pieno e il frigorifero vuoto, chi ha perso la bussola e non riesce più a orientarsi? Per loro, questa non è una festa. È un promemoria doloroso. Il mondo del lavoro è diventato un campo minato. I giovani si muovono a tentoni, in un sistema che li accoglie con porte socchiuse, se va bene. Hanno studiato, si sono formati, hanno creduto nella meritocrazia, e ora vagano in un mercato instabile, fatto di contratti a tempo, stage gratuiti, promesse mai mantenute. Cresce il numero di chi abbandona, chi si rifugia altrove, chi non ci crede più.

E mentre aumentano i non occupati, crescono anche i nuovi poveri. Persone che, pur lavorando, non arrivano alla fine del mese. Famiglie che si reggono su uno stipendio precario, con mutui da pagare, figli da crescere, dignità da difendere con le unghie. E chi invece il lavoro non ce l’ha proprio, spesso non ha nemmeno più le parole per spiegarlo. Perché la disoccupazione non è solo un problema economico. È un trauma sociale, emotivo, personale. Il lavoro è libertà, non è un motto. È una verità. È la possibilità di scegliere, di progettare, di costruire. Senza lavoro, tutto si sbriciola. Il tempo si dilata, le giornate diventano uguali, e la mente inizia a girare su se stessa. Chi non lavora spesso si ammala dentro. Il malessere non resta chiuso tra le mura del singolo: si trasmette alla famiglia, diventa insofferenza, ansia, violenza. I figli respirano tensioni che non dovrebbero vivere. Le coppie si sgretolano. I sogni si chiudono in un cassetto e diventano rimpianto.

La società intera ne porta il peso. Si moltiplicano gli episodi di rabbia cieca, atti inconsulti, esplosioni di disagio che trovano sfogo nella violenza. I casi di accoltellamento, le aggressioni tra giovanissimi, i vandalismi non sono numeri isolati. Sono sintomi. Monreale piange una tragedia immane: tre giovani uccisi, un padre che non trova pace e che dice – con una frase che pesa più di qualsiasi discorso – «la mia vita è finita». Quella frase dovrebbe essere scritta in ogni ufficio pubblico, in ogni sede istituzionale, per ricordare a tutti cosa succede quando si perde il contatto con la realtà. E non serve guardare lontano. Anche a Corigliano Rossano i segnali sono evidenti. Cresce un disagio sordo, senza filtri. In tanti vivono in apnea, inascoltati. Nessuno ha più tempo di ascoltare il grido silenzioso che parte dai quartieri popolari, dalle campagne, dalle periferie dell’anima, ma anche dai centri urbani perché oggi anche il ceto medio è soffocato. E intanto, chi dovrebbe occuparsene, si perde in sciocchezze.

La politica, soprattutto quella locale, si accontenta del superfluo. Si litiga su dove tenere un consiglio comunale, su regolamenti da piegare a convenienza, su cerimonie e poltrone. Mentre fuori, la realtà chiede attenzione, chiede rispetto. Chiede risposte. Ma la politica finge di non sentire. O forse non è più capace di ascoltare. La questione lavoro deve tornare ad essere una priorità. Non un tema da campagna elettorale, non uno slogan da spot, ma una scelta di campo. L’Italia ha bisogno di creare lavoro vero, stabile, dignitoso. Servono investimenti, formazione, politiche attive. Serve ripensare la scuola, legarla ai territori. Serve mettere la persona al centro.Non è solo economia. È etica. È coscienza. È sopravvivenza. Un messaggio a chi un lavoro ce l’ha e non lo apprezza: smettetela di lamentarvi e apprezzate ciò che date per scontato!

Matteo Lauria – Direttore I&C

Una risposta

  1. La domanda è una sola: quando la smetteremo di lamentarci per l’assenza di lavoro e sistematicamente rifiutare qualsiasi richiesta di insediamento produttivo? Credo che c’è un limite alla ipocrisia. Anche se a pensarci bene, viviamo un tempo in cui la coerenza delle idee è una merce rara…

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