Intervista a Francesca Corrado, crotonese che ha fondato la prima Scuola di Fallimento in Italia

«Si ha successo solo in relazione agli altri e non si fallisce mai veramente da soli». Sono queste le parole con cui si è concluso il nostro colloquio con la fondatrice della prima Scuola di Fallimento in Italia, Francesca Corrado, ex docente universitaria nata a Crotone e risiedente a Modena. Di seguito, l’intervista integrale.

Francesca, cos’è per lei il fallimento?

Se prendiamo l’origine etimologica greca, significa fallo, e quindi, energia: anche nelle cadute ci può essere una fonte di energia inesauribile, nostra. Se invece prendiamo la parola latina fallimento, significa inganno. Quante volte ci si sente falliti perché qualcuno ci ha ingannato (un collega/a, un amico/a, un superiore) o abbiamo deluso le nostre aspettative non realizzando gli obiettivi che ci eravamo prefissati? Spesso però, nelle situazioni più difficili riusciamo a trovare soluzioni originali, come nel mio caso. Io avevo associato il fallimento all’immagine del burrone profondissimo, qualcosa da cui non si può tornare indietro. Ma non è affatto così. Prima ero una ricercatrice all’Università di Modena, avevo avviato una start up di formazione e consulenza, una relazione che credevo solida. Ad un certo punto ho fallito. Ho perso soldi, relazioni e ruoli, ma non le mie capacità, che sono quelle che mi hanno permesso di ripartire, aprendo proprio una scuola di pensiero a tal proposito, la Scuola di Fallimento.

Come reagire al fallimento?

Il fallimento, in quanto inganno e auto inganno, può essere un’opportunità: nella nostra scuola dimostriamo che gli occhi spesso inganno il cervello e viceversa, generando errori di percezione, e quindi, una visione della nostra condizione anche più negativa di quella che è nella realtà. La prima cosa che insegniamo è appunto non etichettare immediatamente come negativo/positivo una situazione, ma di valutarla oggettivamente, lasciandosi la possibilità di capire se una deviazione può invece essere un’opportunità per fare meglio e/o avere successo. Essere licenziati è la fine? Essere lasciati è un fallimento? Finisce qualcosa che aveva una forma ben definita ma poi diventa altro e continua sotto una diversa forma. Siamo ancorati con i denti a ciò che conosciamo, dobbiamo abituarci, in un mondo sempre più complesso ad accogliere ciò che non conosciamo e che non possiamo prevedere. E a suo tempo qualcosa ci rivelerà che forse quella cantonata non era poi tale e quella disfatta era solo una delle tante possibilità.

Sbagliando quindi si impara?

No, dal punto di vista tecnico, sbagliando non si impara. Si impara soltanto sapendo e conoscendo l’errore compiuto. L’errore, che è un’informazione, va analizzato. Il fallimento, in questo senso, è il punto finale di una serie di errori. Quando si pensa in un disastro da cui non si può tornare indietro, questo non accade dall’oggi al domani, è il punto finale di una serie di errori e situazioni accumulate, verso cui non abbiamo prestato attenzione.

In una società che non ammette in fallimento, sia in ottica aziendale che scolastico-universitaria, come si può invece vederlo come risorsa?

La Scuola di Fallimento è nata proprio per questo: serve una narrativa diversa del fallimento. Affinché una persona cambi prospettiva, necessita degli strumenti emotivo-cognitivi, altrimenti rimane nel vortice del contesto e da sola non è in grado di uscirne. Il confronto con gli altri può essere salvifico. Condividere e raccontare storie di errori e fallimenti aiuta ad attenuarne la gravità rendendo evidente che tutti inciampiamo e cadiamo perché fallire è nella natura umana. Ciascuno di noi può essere portatore di una cultura sana del fallimento, che possa far sentire a proprio agio il prossimo nel raccontare la propria esperienza, per poi ripartire. Allo stesso tempo dobbiamo imparare a costruirci delle corazze. Nei confronti dei social ad esempio. Utilizzando Instagram, dopo un po’ ti senti fallito/a, perché vengono pubblicate immagini perfette di vite perfette. E pur sapendo che la realtà è ben diversa, che tutti hanno problemi e non sempre è oro quello che luccica, inconsapevolmente veniamo schiacciati dal peso della perfezione e del successo a tutti i costi. Una tecnica che utilizzo è non stare sui social, carico ma non scrollo. Per amor proprio è necessario isolarsi da alcuni contesti, depurarsi, attuare un filtro, studiare continuamente per conoscersi. La competizione deve esistere con sé stessi e non con gli altri: ciascuno di noi ha il proprio punto di partenza, le proprie basi, per questo il paragone con gli altri è frustrante e inutile. Io devo cercare di essere migliore di quello che ero ieri, utilizzando i successi altrui come stimolo per fare meglio. Inoltre, io posso avere una concezione di successo diversa da quella propinata dagli standard sociali. Accettare l’imperfezione e dichiarare la propria concezione di successo è un atto rivoluzionario, fare ciò che ci rende felici è un atto rivoluzionario, ed è anche l’unico modo di affermarsi e avere autostima.

In che modo si può attuare un cambiamento così grande?

Ciascuno di noi, nel nostro piccolo, gioca un ruolo importante nella narrazione del successo quanto del fallimento. A livello amicale o familiare, mostrarsi aperti e disponibili ad accogliere la vulnerabilità dell’altro è il primo passo per il cambiamento. A livello macro le Istituzioni pubblico-private possono e devono contribuire al cambiamento di prospettiva che, essendo culturale, richiede tempo. Lavorando sinergicamente tutti insieme la qualità di vita può di gran lunga migliorare. Troppo spesso ciò che raccontiamo a noi stessi e agli altri non è la verità. Noi mettiamo in vetrina quanto di più splendido ma è anche il resto che ci lega e ci fa capire che non siamo i soli a soffrire. Bisogna imparare a mostrare i lati vulnerabili e insicuri, trovando di fronte rassicurazione e conforto. Se rimuginiamo sull’errore e sui fallimenti avremo un atteggiamento di colpa nei confronti degli altri o di vergogna, una frustrazione che sfocia in eventi violenti da cui è difficile poi tornare indietro. Manca l’educazione alle emozioni; gli errori e il modo in cui interagiamo con gli altri, a volte, non tengono conto delle nostre emozioni poiché non sappiamo dare loro un nome e di conseguenza, non sappiamo fronteggiarle. Purtroppo, non lo vediamo, ma siamo strettamente connessi gli uni agli altri.

Quindi, possiamo dire come Pavese, che l’unica gioia al mondo sia cominciare? Magari anche in età matura, quando parte di vita è già passata e il cambiamento è difficile già soltanto da concepire?

Sì. Io faccio vedere sempre un’immagine in cui sono presenti 98 quadratini. Ogni quadratino rappresenta 1 anno della propria vita. Sembra tutto così poco, ridotto a quel foglietto. Molti successi, molte persone che hanno trovato la propria strada, l’hanno fatto in maturità. Non c’è una ricetta identica per tutti, ognuno ha il proprio percorso e l’importante è arrivare dove vogliamo arrivare. Fatto è meglio che perfetto; come ho già detto, io ho fondato la Scuola in un arco temporale in cui mi sono successe tantissime cose. Mio padre è morto, mia madre si è ammalata, non avevo soldi… c’era ‘solo’ la mia idea. Ma il contesto e il momento perfetto non esistono: ogni momento, indipendentemente da dove ti trovi, è un ottimo momento per fare iniziare qualcosa di nuovo.

E la forza per farlo?

Io credo in un’energia tra le persone, in cui un ruolo fondamentale è giocato dalla fiducia. Io do energia all’altro e l’altro la dà a me: è un patto sociale. Si ha successo solo in relazione con l’altro e non si fallisce mai veramente da soli. Si fallisce in un contesto in cui qualcuno ti giudica, e si ha successo perché qualcuno crede in te. Di questo potere che abbiamo, urge prenderne coscienza.

Virginia Diaco

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