Ho visto e rivisto un documentario prodotto dalla Rai in occasione del trentennale delle stragi di mafia che consiglio a chi legge di guardarlo (RaiPlay per chi se lo fosse perso): “Chiedi chi era Giovanni Falcone”. E mentre lo guardavo riflettevo se davvero ne sia valsa la pena, e con lui Paolo Borsellino, mettere a rischio la propria vita per una battaglia nobile ma impossibile da vincere. E dico impossibile non a caso. A trent’anni dalla morte, mi chiedo e vi chiedo come sia cambiata l’Italia? Dovrebbero chiederselo i leaders dei partiti ai vari livelli e darsi delle risposte mettendosi in contatto con le proprie coscienze; dovremmo chiedercelo noi tutti, come singoli cittadini, che predichiamo l’onestà quando si tratta degli altri, mentre in casa nostra è tutto concesso; dovrebbero chiederselo quei tanti magistrati che, spesso, svolgono un ruolo burocratico ancor prima che investigativo; e i tanti uomini e donne dello Stato che ai vari livelli svolgono ruoli istituzionali importanti. La mia risposta, spiace esprimermi con toni pessimistici, è estremamente negativa. Tanto è che sono portato ad affermare che, al di là di azioni commemorative e di sensibilizzazione, le morti dei due giudici non siano servite a nulla. Anzi, hanno impresso in tanti magistrati la paura di agire e, in altri casi (basta leggere il libro di Palamara) di aprirsi addirittura all’illegalità e alla corruzione. La lotta alla mafia è divenuta nel corso degli anni un vessillo per fare carriera in politica o in magistratura. È divenuta materia per crearsi spazi di visibilità nella società civile mediante l’associazionismo civico o movimentismo, e magari chiedere finanziamenti ai vari enti. Ma davvero si può pensare che nel terzo millennio non ci siano le condizioni per sconfiggere chi delinque? Oggi la battaglia si poteva e si può vincere con la tecnologia. Con l’impiego dei famosi “trojan” o con le nuove frontiere tecnologiche! Davvero lo Stato non è in grado di fronteggiare la criminalità organizzata con tutta l’evoluzione nel mondo dell’informatica? Se così è, uno Stato che si rispetti dovrebbe rimuovere chi ha ruoli di responsabilità, senza se e senza ma. E a poco servono gli alibi eterni secondo cui si è sott’organico e non c’è personale, che rappresentano ormai le giustificazioni all’immobilismo.
Abbiamo costruito un’Italia in cui nessuno risponde a nessuno, persino del mondo del calcio siamo stati esclusi dai mondiali e l’allenatore è rimasto li a guidare la futura nazionale. In questo contesto, in cui come dicevo nessuno risponde a nessuno, è ovvio che chi è nella pubblica amministrazione vive in una botte di ferro. È venuto meno quel collante che si richiama ai principi di bilanciamento dei poteri troppo sproporzionato e appannaggio di chi è nelle istituzioni. Le morti di Falcone e Borsellino sarebbero servite se avessero aperto l’Italia al mondo delle vere riforme: introdotto in magistratura elementi meritocratici, a partire dalla elezione diretta del presidente del Csm, eletto dal popolo (corpo elettorale epurato da condannati e affini fino al quarto grado), fino alla necessità di eliminare da tale organismo ogni filamento politico. Ed anche nel settore delle forze dell’ordine, prevedere l’eliminazione della carriera per anzianità e introdurre principi di produttività correlati alla qualità. Quanti casi vengono archiviati per difetto o errori investigativi? Quali le responsabilità della polizia giudiziaria e dei giudici che operano nelle procure? Quante sentenze sono andate a buon fine e quante non hanno reso giustizia? Chiediamoci il perché abbiamo l’abitudine di separare la verità processuale da quella storica? Eppure, se la giustizia funzionasse, i fatti dovrebbero collimare o no? Ma che le morti di Falcone e Borsellino siano servite a ben poco è riscontrato dalla vita quotidiana di ognuno. Il senso etico e la moralità sono scomparsi come valori veri, sono usati solo per effettistica dialettica e qualche applauso. Non è un caso se, legittimamente, è divenuto meritorio esercitare attività di lobbying e non poteva mancare persino una legge dello Stato che tendesse a tutelare gli interessi di gruppi di potere anche nel perseguire interessi particolari. Tutta torna o no? Siamo in un’epoca in cui essere truffatori è come avere una medaglia al petto; spiccare per furbizia (che non è astuzia) è un modo per distinguersi e di trovarsi magari anche con ruoli di rappresentanza o di governo. E cosa dire dei tanti candidati ai vari concorsi pubblici che, anziché fare la rincorsa ai testi utili per formarsi e studiare, vanno alla ricerca di coperture e raccomandazioni. Ecco, tutto questo rappresenta la grande sconfitta dello Stato. E a poco è servito il tanto declamato rinnovamento o il giovanilismo straordinario prosecutore di processi degenerativi. Di persone perbene in giro non so quante ce ne siano, so che ci sono, ma non rappresentano la massa. E allora, se questo è il contesto, possiamo dire che le morti di Falcone e Borsellino siano servite a qualcosa? Che si abbia almeno il buongusto di tacere, di fronte a delle persone che per amore nei confronti della propria professione, per fedeltà allo Stato, per orgoglio e per dignità, decisero di esporsi con coraggio nella lotta al malaffare. Siamo tutti mafiosi!
Matteo Lauria – Direttore I&C