Il dipinto di Sant’Agata della Chiesa di Santa Maria Maggiore di Corigliano è un altro capolavoro che meriterebbe un pubblico di ammiratori più ampio rispetto a quello che ha.
Prima di iniziare a illustrare il quadro e il contesto artistico nel quale questo dipinto è nato, si ritiene opportuno accennare alla storia di Sant’Agata, storia che aiuta a meglio apprezzare il dipinto coriglianese.
Agata nacque nel III secolo d.C. in una ricca e nobile famiglia catanese. Poiché non volle rinnegare la sua fede e i suoi principi religiosi, che da lei erano vissuti come importanti regole di vita, fu perseguitata e sottoposta ad atroci torture al fine di piegarne la volontà. Oltre ad averla fustigata, legata sull’eculeo e allungata con funi fino a slogarle le caviglie e i polsi fu sottoposta alla feroce e inumana violenza dello strappo delle mammelle con delle tenaglie di ferro. Per questa sua storia fin dall’antichità Agata è stata una delle martiri cristiane più venerate e presente in dipinti, affreschi, mosaici. E ovviamente queste rappresentazioni della Santa risentono delle correnti artistiche dell’epoca in cui le raffigurazioni avvenivano.
Il Fracanzano, ritenuto appunto l’autore del dipinto di Sant’Agata di Corigliano, era nato a Bisceglie da Alessandro, anche lui pittore, il quale fu il primo a impartire a lui e al fratello Francesco i rudimenti dell’arte pittorica. È a Napoli però che iniziò la sua crescita e maturazione artistica. Infatti intorno al 1616 si era trasferito nella capitale del regno ed era entrato nella bottega del pittore spagnolo Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto, senza dubbio, uno dei massimi protagonisti della pittura europea del XVII secolo.
Napoli, nei primi anni del ‘600, aveva visto la presenza di Michelangelo Merisi detto Caravaggio, presenza tanto innovativa da smuovere il mondo artistico locale. Così in questa città intorno al Merisi si era creata una prima cerchia di artisti che ne seguiva la filosofia artistica, come per esempio Battistello Caracciolo.
Jusepe de Ribera (1591-1652), il maestro di Fracanzano, era un artista che arrivava addirittura a esasperava l’ortodossia caravaggesca raccontando con la pittura anche di un’umanità emarginata e infrangendo – così facendo – le regole del decoro, arrivando a rappresentare persone abbrutite dalla fatica e dalla miseria. Era arrivato a Napoli quando la stagione partenopea del Caravaggio si era conclusa, ma avendone seguito lo stile – già durante la sua permanenza romana – divenne il punto di riferimento per la formazione dei “caravaggisti di seconda generazione”, quelli che non avevano avuto rapporti diretti col Merisi.
Comunque, oltre al Caravaggio e al Ribera, altri illustri pittori erano presenti a Napoli nella prima metà del XVII secolo dando vita a quel fecondo periodo di crescita artistica che prese il nome di “Seicento napoletano”. A Napoli, per esempio, operarono il Domenichino, Stanzone e la famosa Artemisia Gentileschi, che vi morì.
Si può così ritenere che il dipinto coriglianese di Sant’Agata, con la sua tragica teatralità che mette al centro della scena più che una santa una persona, sia un prodotto di questo contesto artistico napoletano dove maturò Cesare Fracanzano, contesto che aveva la capacità di sedurre, commuovere e conquistare non in virtù delle figure armoniose tipiche della scuola rinascimentale, ma grazie a una forte rappresentazione delle emozioni che mettevano al centro della scena gli umili, il corpo umano, i tormenti, le passioni e la cruda realtà della vita. Pertanto è facile intuire come la raffigurazione della drammatica storia di Sant’Agata ben si prestasse a questa filosofia artistica.
Per meglio muoversi in tale mondo, risulta anche illuminante il film del 1997 “Artemisia – Passione estrema”, che tratta della vita di Artemisia Gentileschi e nel quale viene evidenziata la meticolosità con la quale l’artista studiava nei minimi dettagli il corpo delle persone per meglio riuscire a dare alle figure che voleva riprodurre la massima vitalità e veridicità.
Lo sfondo del quadro coriglianese è scuro e richiama la corrente pittorica del tenebrismo di cui lo Spagnoletto fu uno dei massimi protagonisti. Sant’Agata emerge dalle tenebre con uno squarcio di luce che la illumina e ne mette in risalto un’ascetica e composta gravità che ne evidenzia le fattezze. La luce che esalta la sua figura la mostra incatenata in una cella buia dopo aver subito il supplizio della violenza alle mammelle. Sulla sinistra c’è una finestra dalla quale si intravede un paesaggio solcato da un pendio rischiarato da bagliori abbaglianti, forse a rappresentare la speranza che deve essere sempre presente.
La Santa ha un’espressione pacata, ma non remissiva, che fa percepire la ferma volontà di non indietreggiare dalle sue convinzioni neanche di fronte alle torture, anche se si intuisce la sua sofferenza e il dolore.
Dice la prof.ssa Teresa Gravina Canadè che «i biondi e morbidi capelli, il bel volto assorto, la torsione del busto, che vorrebbe forse esprimere l’intensità del dolore, ma non riesce a celare la grazia e la sensualità di una figura, che appare più “donna” che “santa”. La delicata tenerezza di quel braccio che trattiene sotto i seni il velo e le vesti, il sapiente e morbido panneggio che ammanta il corpo, il dosaggio stesso della luce nelle parti denudate e nel viso, colpiscono per l’intensa femminilità che ne scaturisce…».
Cesare Fracanzano il 16 luglio 1626 si era sposato a Barletta con Beatrice Covelli, una donna molto bella, e si racconta che la moglie spesso posava per il marito. In effetti molte protagoniste dei suoi dipinti ricalcano costantemente un modello femminile caratterizzato dai capelli biondi, uno sguardo dolcissimo, le mani dalle dita lunghe e affusolate, tutte caratteristiche che si ritrovano anche nell’opera coriglianese.
Opere di Fracanzano oggi si trovano in chiese e musei in Puglia, in Campania e anche al Museo del Prado di Madrid. Insomma la Sant’Agata di Corigliano è un grande dipinto e, se non bastasse a confermarlo l’intensità del messaggio che riesce a esprimere e trasmettere ai suoi ammiratori, la circostanza è avvalorata dal fatto che nel 1989 venne rubato e i ladri di opere d’arte, com’è noto, non si muovono per opere di poco valore. Per fortuna la tela successivamente venne ritrovata e sottoposta a un delicato restauro che l’ha riportata all’originale equilibrio tonale.
Martino A. Rizzo
I racconti di Martino A. Rizzo ~ di mercoledì su I&CMartino Antonio Rizzo è un grande curioso di storie e avvenimenti rossanesi, coriglianesi e più in generale calabresi e gli articoli che prepara per Informazione & Comunicazione non sono altro che il risultato delle ricerche utili a soddisfare queste sue curiosità. Frutto di tale attività è stata anche la realizzazione del sito AnticaBibliotecaCoriglianoRossano che ormai si è meritato un posto di rilevo tra i siti contenenti libri, articoli e fotografie sulla Calabria, tutti liberamente scaricabili. |
Una risposta
Molto bello e interessante racconto.