U vicinanzə, racconto di Martino A. Rizzo

«u vicinanzə mio era a ri Cappuccini, precisamente a ra scisa e ru spitali. E u tuvi?» Ognuno si porta nel cuore il suo vicinato che era costituito da un insieme di famiglie che vivevano in abitazioni contigue la cui prossimità non era solo fisica ma innanzi tutto di rapporti che col tempo si erano instaurati e consolidati, quasi una parentela allargata: «siamo dello stesso vicinanzə», «siamo cresciuti nello stesso vicinanzə», erano modi di dire che una volta si sentivano spesso e che certificavano questo particolare rapporto sociale. Sul mondo del vicinato in Calabria hanno scritto pagine importanti Mario Alcaro e Vito Teti – dalle quali questo articolo trae grande spunto – descrivendo il rione come un’entità con un’anima che si riconosceva nelle persone, nelle case, negli oggetti, nei suoni, nei rumori, nei santi protettori, nella parrocchia, nei colori. Insomma una minuscola porzione del paese che si portava dietro la medesima memoria degli anziani che ci erano vissuti, i ricordi delle giornate spensierate trascorse insieme, i dolori di una famiglia che automaticamente diventavano i dolori di tutta la piccola comunità, gli affetti costruiti con anni di contatti e di aiuto reciproco.

Le donne erano le prime cultrici del rapporto di vicinanzə, accomunate dalla frequentazione della stessa chiesa, dal recarsi giornalmente alla medesima fontana pubblica per approvvigionarsi dell’acqua necessaria per le esigenze di casa, dall’andare a fare la spesa con la “libbretta” nelle stesse botteghe, dal prestito reciproco di cose: «vai da Carupita e fatti prestare una cipolla che sono rimasta senza ..», dal mettersi in circolo la sera, all’aperto, durante la bella stagione, per rendere più piacevoli, tra una chiacchiera e l’altra, i lavoretti del passatempo.

La vicina all’occorrenza poteva diventare anche una baby sitter ante litteram. Bastava dire al bambino «vai da zia Teresina e fatti dare un po’ di trattenimi», ma la zia-vicina non riusciva proprio a trovarlo questo benedetto “trattenimo” e così il bambino doveva aspettare un bel po’ prima di essere accommiatato.

Gli uomini, a loro volta, la sera si ritrovavano nella stessa osteria presente nel vicinanzə per rilassarsi, dopo una giornata di lavoro, giocando a carte e bevendo vino accompagnato da tocchetti di mortadella e provolone. E se entrava un ragazzino con la bottiglia che gli aveva dato la mamma per acquistare il vino, in considerazione della sua giovane età, a questo giovane avventore gli anziani presenti non potevano offrire un quarto di vino, come facevano di solito con i nuovi arrivati, ma un formaggino sì.

Anche per i ragazzi del rione era consuetudine giocare in gruppo e spesso si organizzavano in bande che sfidavano le bande degli altri quartieri. A Rossano non c’è mai stato come in tante città un “palio” per la competizione tra i diversi quartieri, ma non sono mancate le teste rotte a sassate nelle guerre tra le bande di vicinanzi diversi, sul modello di quelle dei ragazzi della via Paal.

A settembre i monelli giocavano tra di loro con le noci, mentre in altri periodi primeggiavano le trottole, i “carroccili”, con le “panzette” e le “tabacchere” che facevano da protagoniste, oppure a “scaricacanali”, alla “staccia” e tanti altri giochi ancora per i quali quello che serviva era solo una buona dose di fantasia e tanta abilità.

Le feste contribuivano a cementare i rapporti di vicinato. Innanzitutto gli onomastici durante i quali, poiché i nomi dei vicini erano conosciuti da tutti, ci si presentava spontaneamente a casa del festeggiato per fare gli auguri e portare il “presente”, un dono, e gradendo la “spasa”, il vassoio con dolcini accompagnati dal “biccherino”. Per alcuni onomastici la festa arrivava addirittura a essere collettiva, come quella del 19 marzo, la festa di San Giuseppe. Quel giorno, la famiglia che aveva al suo interno un componente col nome “Peppino”, preparava “u mitə”, che consisteva in una pietanza realizzata con taglierini fatti in casa conditi con ceci cotti e pezzi di baccalà, che veniva distribuito in segno di omaggio alle altre famiglie del vicinanzə. Per Sant’Antonio, le famiglie con un “Tonino”, preparavano i “paniceddi e Sant’Antonu”, dei piccoli panini che venivano fatti benedire e poi distribuiti al vicinanzə.

Ai matrimoni, invece, sia quando la futura sposa usciva di casa tutta abbigliata per andare a piedi in chiesa dove l’aspettava il futuro sposo, sia quando la novella coppia, in corteo, si avviava verso casa per i festeggiamenti, i vicini in segno di augurio “jettavani i cumpetti” e i ragazzi sgomitavano nel corteo per raccattarne il più possibile.

Nella cultura del vicinanzə i doni acquisivano una grande valenza in quanto facevano nascere obblighi morali che rafforzavano ancora di più il legame sociale: si diceva «si vo ca l’amicizia si mantena nu panareddu va e n’atri vena».

I “Fuochi di San Marco” erano un’altra occasione di convivialità collettiva durante la quale veniva apparecchiato un grande tavolo nello slargo del rione sul quale ognuno metteva in comunione la pietanza che aveva preparato e soprattutto tanto, tanto vino; mentre i giovani si sfidavano tra loro saltando sul fuoco. L’uccisione del maiale era un ulteriore evento che accomunava i vicini. Così come aiuto reciproco veniva dato per i «pummalori», la provvista della salsa dei pomodori e dei pelati per l’inverno, fatta all’aperto, per strada.

Nel rione non mancava inoltre il senso di protezione e supervisione sui più piccoli da parte di tutti i componenti di questa grande famiglia allargata che era il vicinanzə. Capitava che i ragazzi sperassero che qualche loro marachella non arrivasse alle orecchie del papà, ma questi – una volta tornato a casa − immediatamente richiamava il bambino per quanto aveva combinato perché un vicino aveva pensato bene di avvertirlo. E quando una mamma sgridava a voce alta un figlio, dalla casa di fronte si accodava la vicina con la raccomandazione fatta a distanza al giovane o alla giovane: «Carmè, un farə arraggiare a mammita!»

Spesso il rapporto di vicinato veniva rafforzato dal “vincolo del San Giovanni” con comparaggi che nascevano in occasione di battesimi, cresime e matrimoni. I padrini e i compari costituivano una via di mezzo tra la figura dell’amico e quella del parente, una “parentela spirituale” che veniva anche suggellata con l’attribuzione del termine di “zio” e “zia”.

In caso di sgarbi e di non rispetto del “galateo del vicinanzə” i rapporti potevano però deteriorarsi, degenerare e diventare molto difficili con le donne che arrivavano ad accapigliarsi per strada mentre si scalciavano reciprocamente e gli uomini che “si tiravano di coltello”.

Nel vicinanzə c’erano anche famiglie che per nobiltà, prestigio, censo, studi, stavano nella considerazione sociale dell’epoca un gradino sopra le altre e il rispetto verso di loro diventava quasi ossessivo. Alcuni vecchi nel passare davanti alle case delle famiglie importanti del rione si levavano il cappello, anche se non c’era nessuno a osservarli, in segno comunque di un rispetto atavico. Il pomeriggio si cercava di non fare rumori per non disturbare il riposo del “signurino” del rione che certe volte era costretto a intervenire con la sua autorevolezza per riportare la pace tra famiglie che si erano “scerrate”. Era considerato un grande onore far battezzare o cresimare un figlio a un rappresentante di queste famiglie importanti. Insomma tutto un mondo che ormai non c’è più e pertanto per farlo conoscere ai giovani non resta che raccontarlo.

Martino A. Rizzo 

 

I racconti di Martino A. Rizzo. Ogni mercoledì su I&C

Martino Antonio Rizzo è un grande curioso di storie e avvenimenti rossanesi,

coriglianesi e più in generale calabresi e gli articoli che prepara per Informazione & Comunicazione non sono altro che il risultato delle ricerche utili a soddisfare queste sue curiosità. Frutto di tale attività è stata anche la realizzazione del sito www.AnticaBibliotecaCoriglianoRossano.it che ormai si è meritato un posto di rilevo tra i siti contenenti libri, articoli e fotografie sulla Calabria, tutti liberamente scaricabili.

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