TRADIRE PER TROVARSI, OVVERO IL CORAGGIO DELLA DISSOCIAZIONE
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Alessandra, protagonista e narratrice nata nel 1987 a Livorno, seconda di cinque figli, ha un ricordo in particolare della propria infanzia: l’essere continuamente appellata “faro” dalla madre. Nitida altresì la memoria di un pomeriggio in cui è stata da lei abbandonata su una panchina perché, per la prima volta, aveva urlato ciò che pensava.
Geova e i suoi militanti le rubano la giovinezza, “accartocciandola” tra rifiuti e rinunce di cose scontate per i suoi coetanei: «chiedeva di annientare il proprio io e tutte le sue manifestazioni in cambio della Sua protezione e di quella del gruppo». Non può festeggiare il compleanno, il Natale e il Carnevale. Non può praticare sport pericolosi o a livello agonistico, socializzare a scuola, brindare, esercitare il diritto di voto, fumare, donare o ricevere sangue, leggere l’oroscopo o libri “peccaminosi”, ascoltare musica rock o metal, farsi un piercing o un tatuaggio, avere rapporti prematrimoniali, manifestare, ambire a soddisfazioni lavorative. Autodeterminarsi, insomma. Il cartamodello delle donne si trova nelle Sacre Scritture: caste, discrete, sobrie, ubbidienti e sottomesse al capo, padre o marito che sia.
Della Pasqua, nella sua “famiglia allargata”, si celebra la morte, che «sembrava pendere come una spada di Damocle sulla testa di tutti noi». Armageddon, convincono Alessandra-Martina, può arrivare da un momento all’altro, il fuoco sarebbe piovuto dal cielo e la Terra avrebbe inghiottito i malvagi. La paura di Satana si confonde con quella del buio agli occhi e sulle membra di una bambina.
Geova offre risposte comode e pronte e bisogna non metterle in discussione: studiare la Bibbia, imparare versetti a memoria, presenziare alle adunanze, competere nel proselitismo, distribuire volantini e riviste “Svegliatevi!”, assicurarsi sempre il beneplacito del Comitato giudiziario e sposare un “fratello”. Riprodursi con lo stampino. Possedere il rigore e l’autocontrollo di un robot. La tenera Alessandra si sforza per anni di mediare tra due mondi, smarrendosi: «Forse siamo solo l’insieme delle bugie che raccontiamo a noi stessi». Trentenne, paragonerà la prima volta in discoteca all’inserimento in un asilo!
Ma Martina non si limita a testimoniare quanto noi “infedeli” possiamo solo immaginare, a istillare la forza che occorre per rinascere pur tagliando di netto le radici e a denunciare un’anacronistica e inaccettabile gabbia religiosa, affronta e sfata i falsi miti della genitorialità: «Se bastasse partorire un figlio per garantirgli magicamente cura e protezione, forse non esisterebbe la categoria degli psicoterapeuti». Alessandra è una bambina sensibile, sola e investita di un ruolo che non le compete: è confidente della madre, caricata di aspettative e segreti che non toccherebbe a lei custodire e che non può ancora comprendere, matura un precoce senso del dovere e si prefigge l’obiettivo di “dare meno disturbo possibile”. Dinanzi alla cecità dei genitori, capisce presto, un figlio ha due modi per richiamare su di sé lo sguardo: ribellarsi, come ha fatto il fratello Riccardo, o cercare di essere perfetto con un’estenuante ricerca dell’approvazione. Il terzo è ammalarsi e progettare il suicidio. Implodere, e lei lo fa. Si accartoccia. «Geova era perfetto per chi non si sentiva accolto e compreso dai padri veri».
Nel prologo chiarisce: «Sono stata un bravo faro, in definitiva: negli anni ho tentato di essere il più fedele possibile alla bambina, alla ragazza, alla donna che avrebbero voluto fossi, cercando di soddisfare tutte le loro attese, almeno fino al giorno in cui ho deciso che avevo pure io il diritto di perdermi in qualche tempesta, e la strada ritrovarla da me e per me. Così, il faro a trent’anni ha dirottato la sua luce: ha attraversato la cecità di una lunga notte per disperdersi, abbagliante, nel chiarore di una nuova alba».
Plaudo all’idea, dato l’amore per l’etimologia, di concludere ogni capitolo con la definizione di una parola esistenziale: abbandono, alternativa, paura, tradimento, disamore, morte, perdita, desiderio, vuoto, risveglio, separazione, libertà, rabbia, riscatto. L’opera è ricca di suggestioni in chi, come me, è stato adolescente a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, con riferimenti al “Cioè”, ai primi CD, al tormentone “Barbie Girl”, ai poster alle pareti e agli squilli telefonici come messaggi. Ma c’è di più, perché Alessandra-Martina, a dodici anni, è costretta a trasferirsi in Calabria e frequenta il Liceo scientifico della città in cui sono cresciuta, evocandone l’aroma della liquirizia e un professore di filosofia “con i capelli grigi raccolti in un codino” che conosco. Ho potuto immaginarla in strade e tra persone che anch’io ho frequentato.
Allo stesso modo voglio essere sincera nel condividere le perplessità sullo stile nella sua interezza e sulla seconda parte del testo (di cui niente ho svelato), che mi è parsa “affrettata” e poco ben delineata. Meglio si sarebbe fatto, forse, a mettere il punto raccontata la dissociazione. Ritengo, d’altro canto, che Martina avesse l’urgenza di scrivere per sublimare («Fissare su carta i miei ricordi d’infanzia, i miei genitori e i miei luoghi, anche tutti i desideri a cui ho rinunciato, in qualche modo me li ha restituiti») e sembra esserci riuscita!
Gemma
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Che Gemma di libro! ~ di domenica su I&CGemma Acri Guido è nata a Cariati e cresciuta a Rossano. Ha poi cambiato casa e paese più volte di quelle in cui si è lasciata tagliare i capelli. |