EDITORIALE | Quando chi cura è lasciato solo: camici bianchi tra depressione e ansia. Quando la politica usa la sanità

La politica usa la sanità come arma di consenso, mentre medici e infermieri cadono nell’angoscia. È tempo di smettere di infangare chi tiene in piedi un sistema già al limite.

C’è un dato che dovrebbe scuotere chiunque abbia ancora un minimo di coscienza civile: un operatore sanitario su tre soffre di ansia o depressione, e più del dieci per cento ha pensato al suicidio o a farsi del male nelle ultime settimane. È quanto emerge dall’indagine MeND, promossa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e pubblicata da Assocarenews.it:   Dietro il camice c’è una persona. Noi cittadini abbiamo l’abitudine di vedere medici e infermieri come esseri invincibili, da chiamare quando stiamo male e da dimenticare quando torniamo a stare bene. Li pensiamo come figure eterne, sempre pronte, sempre forti. Non ci chiediamo mai come stiano, cosa li tenga svegli la notte, quanta paura si portino addosso. Eppure, uno su tre vive immerso in un malessere che non è solo stress da lavoro: è depressione, è ansia, è la sensazione di essere sacrificabile. E questo avviene mentre la società li osserva con crescente diffidenza e la politica li usa come bersaglio per racimolare consenso. In Calabria, la sanità è da anni il piatto principale di ogni campagna elettorale.

Ad ogni tornata, lo stesso copione: slogan, accuse, promesse di rinascita. Tutti parlano di “malasanità”, pochi parlano della malapolitica che la alimenta. Ogni volta che un politico, in cerca di visibilità, spara sulla sanità calabrese, mina la fiducia dei cittadini e alimenta l’emigrazione sanitaria. È un gioco irresponsile, al massacro: si distrugge la credibilità di ospedali, reparti e operatori solo per guadagnare qualche punto nei sondaggi. Intanto, i calabresi continuano a partire per farsi curare altrove, portando via risorse, tasse, dignità. Ci vuole poco a distruggere la reputazione di un sistema: basta una dichiarazione, un titolo urlato, un post virale. Ci vogliono invece anni per costruire fiducia. Eppure, la politica continua a calpestare la sanità come terreno di scontro, dimenticando che lì dentro lavorano uomini e donne che ogni giorno affrontano emergenze, carenze di personale, turni infiniti e aggressioni fisiche e verbali. Sembra quasi che alla politica serva una sanità malata per poter dire di volerla guarire. Ma chi paga il prezzo di questo cinismo sono i medici e gli infermieri, costretti a operare dentro un clima di sospetto e sfiducia costante.

C’è poi un altro male, meno visibile ma ancora più corrosivo: l’ingerenza politica negli apparati sanitari. In Calabria, ogni nomina, ogni direzione, ogni incarico sembra passare dal filtro di appartenenze e amicizie. È una prassi antica, tossica, che ha logorato la struttura stessa del sistema sanitario. La politica dovrebbe fornire indirizzi, visione, risorse. Ma la gestione deve spettare ai professionisti, non ai portaborse. Finché la sanità resterà terreno di conquista per partiti e clientele, sarà impossibile costruire un sistema efficiente, autonomo, rispettato. Perché la sanità non è una macchina di voti: è un diritto, un servizio, un patto di fiducia tra cittadini e istituzioni. Non si può negare che esistano errori, negligenze, episodi di cattiva gestione. Ci sono, come ovunque. Ma in Calabria ogni errore diventa marchio d’infamia, ogni disservizio viene trasformato in prova definitiva di incapacità. È un atteggiamento autolesionista, alimentato anche dai media e da una parte dell’opinione pubblica che preferisce indignarsi anziché capire.

Smettiamola di usare la sanità come cavia per le campagne elettorali. Il danno che si crea non è solo politico: è umano, culturale, economico. Perché distruggere la fiducia nella sanità significa distruggere la fiducia in noi stessi. Significa scoraggiare i giovani medici, spingere via chi vorrebbe restare, rafforzare l’idea che qui non valga la pena curare o essere curati. E intanto, chi resta — chi continua a fare turni impossibili, chi fronteggia la violenza nei pronto soccorso, chi assiste malati terminali — si trova solo. Solo di fronte al dolore altrui, e spesso anche al proprio. Quel dato dell’OMS, quello di un operatore sanitario su tre in depressione è la prova che il sistema non protegge più chi lo regge.

Ogni volta che un medico entra in crisi, ogni volta che un infermiere pensa di farla finita, dovremmo fermarci e chiederci cosa abbiamo costruito attorno a loro. Perché non si può chiedere a chi salva vite di continuare a farlo mentre la sua viene consumata dall’angoscia. E non si può continuare a far finta che la colpa sia solo dei tagli o dei bilanci. La colpa è anche del disprezzo culturale con cui trattiamo chi lavora nella sanità. Li vogliamo efficienti, impeccabili, sempre pronti. Ma li lasciamo soli nel momento in cui cadono. La Calabria non è condannata. Non lo è mai stata. Ci sono medici, infermieri, tecnici, volontari che ogni giorno dimostrano professionalità e umanità straordinarie. C’è chi, nonostante tutto, resta. Chi accetta di lavorare dove altri scappano.

Chi, invece di lamentarsi, prova a costruire un reparto, un servizio, un’idea di futuro. A loro serve sostegno, non compatimento. Servono mezzi, strutture, ma anche parole giuste. Perché la fiducia è un farmaco potente: costa poco, ma guarisce molto. Occorre smettere di cercare colpevoli e cominciare a cercare soluzioni. Non è un caso che, chiuse le urne, il dibattito sulla sanità in Calabria si spenga. Per settimane la sanità è stata il centro di tutto: titoli, talk show, dichiarazioni. Poi, silenzio. È la prova di quanto fosse solo un tema di convenienza. Ma la salute non può essere stagionale. Non può dipendere dal calendario elettorale. La salute è una responsabilità che attraversa tutti: politica, cittadini, stampa, istituzioni. Finché continueremo a parlare di sanità solo per lamentarci, non cambierà nulla. Serve un cambio di passo, di linguaggio e di coscienza.

Matteo Lauria – Direttore I&C

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