Lo osservo naturalmente nel mio ambito ristretto, professionale, ascoltando ciò che i miei Pazienti mi raccontano e provano e ne faccio tesoro, per capire, per comprendere, per prevenire.
Tutto è cominciato da quando l’allarme gravissimo della epidemia si è un poco allentato, i ricoveri in terapia intensiva sono progressivamente e piano piano scesi, l’emergenza ospedali si è leggermente ridotta e il clima di imminente catastrofe si è alleggerito.
Ciò ha permesso che si potesse cominciare, timidamente e con molta prudenza, a parlare di” Fase II”, ossia di lento e progressivo, prudente allentamento delle misure restrittive, cui abbiamo dovuto sottoporci tutti, per poi procedere, sempre con molta lentezza e prudenza, ad un auspicato e anelato da tutti, ritorno alla normalità, pur con tutti i distinguo, che la situazione, del tutto nuova e imprevedibile, comporta e impone.
Si sono fatti programmi, si sono accese speranze e illusioni, alcune sono state soffocate sul nascere dalla prudenza dei Virologi, neo Cerberi, che avevano in mano la chiave della nostra prigione, nella quale ci siamo spontaneamente e quasi di buon grado reclusi da soli, viste le circostanze che imponevano con risolutezza, l’applicazione di queste draconiane misure restrittive.
Abbiamo, tutti assieme cominciato a sperare di poter tornare a quella normalità, prima così naturale e spontanea, da apparirci ovvia e intoccabile e che invece, in un battibaleno, abbiamo perso, abbiamo dovuto abbandonare, per accontentarci di un pallido ricordo di quella, di un simulacro, di un’ombra che ce la ricordava appena e che ci rendeva lontana e desiderabile, quella condizione che solo poco prima ci appariva assolutamente ovvia e certa, tanto da non permetterci nemmeno di apprezzarla.
Abbiamo cominciato a sperare, che timidamente e a piccoli passi, con moderazione, avremmo potuto riappropriarci di quei beni, di quelle prerogative, di quelle condizioni di vita, così proditoriamente strappateci e che ora ci appaiono allettanti e desiderabili, tremendamente appetibili, ansiosi come siamo, di liberarci dei vincoli che da noi stessi ci siamo imposti, per salvaguardare la nostra salute.
In questo clima idilliaco di speranza, di sogno di un ritorno ad un passato di normalità perduta, mai avrei pensato o minimamente sospettato, che molti dei miei pazienti, prima con timore e poi sempre con maggiore sollecitudine e bisogno di confessare, mi avrebbero confidato, che in fondo al loro animo, tutto sommato, in questa condizione di restrizione della libertà si trovano bene e che, con stupore di loro stessi, si accorgono di temere un ritorno, seppur progressivo e prudente alla normalità, alla vita di prima, alla vita senza più Coronavirus, senza mascherine, senza distanziamento sociale senza proibizione assoluta di strette di mano, abbracci, baci e altre effusioni affettive, una vita non più relegata in casa a far nulla, o a pulire ossessivamente, a fare il pane con il lievito divenuto introvabile, a trascorrere ore e ore davanti allo schermo del computer a chattare o anche a lavorare, ma in pigiama e pantofole, senza dover affrontare il traffico cittadino e senza rapporti gravosi con i colleghi.
Una vita, insomma, ricca di “senza” e poverissima di “con”, una vita sospesa, come è quella di molti in questi ultimi mesi.
Superato lo stupore iniziale, per una rivelazione che mi appariva assurda ad inconcepibile, ho cercato di comprendere, mi sono sforzato di comprendere, ho iniziato a comprendere, e in questo processo di comprensione di ciò che mi appariva incomprensibile, mi ha aiutato la rilettura de “Il Malato immaginario”, di Moliere.
Chi era infatti, il protagonista dell’opera di Moliere, se non un uomo terrorizzato dalla vita, dalle incombenze di questa, dalle responsabilità di questa, che ognuno di noi, quotidianamente affronta, e che per paura, terrore di queste responsabilità, si rifugiava nelle malattie “immaginarie” che gli impedivano di vivere?
E allora, anche in epoca moderna, attuale, perché non dovremmo provare gli stessi sentimenti, le stesse paure, lo stesso desiderio di sottrarci alla vita attiva e responsabile, che hanno condizionato e coercizzato il personaggio, di fantasia, ma perfettamente reale di Moliere?
Perché non dovremmo provare, tutto sommato allettante, confortevole, rassicurante, una vita vissuta in tono minore, più modesta certamente, con minori entusiasmi e aspirazioni, ma anche con minori responsabilità e incombenze? Ma soprattutto una vita in cui non fosse necessario prendere decisioni, ma ci fosse chi prendesse decisioni per noi, e a noi non rimanesse altro che il compito di obbedire?
Se si facesse strada questo sentimento malsano e pericoloso, autodistruttivo e rinunciatario, passivo e apatico, lo dovrei considerare l’effetto più deleterio a pericoloso del Coronavirus, ancora peggiore dell’effetto letale.