Settantasei sindaci calabresi hanno sottoscritto un documento congiunto contro l’autonomia differenziata, invocando una “sola Italia”. Questo gesto, che potrebbe apparire come un baluardo di unità nazionale, solleva tuttavia interrogativi e riflessioni sulla reale natura delle divisioni italiane e sul tempismo della loro consapevolezza.
L’Italia è una nazione storicamente divisa, le cui spaccature risalgono alla caduta del Regno delle Due Sicilie e all’emergere della questione meridionale. La disomogeneità tra Nord e Sud non è certo una novità, ma un retaggio che ha segnato il paese fin dall’unità. Eppure, solo oggi, di fronte a un governo di centrodestra, si levano voci così unanimi contro la frammentazione, lasciando trasparire un’innegabile strumentalizzazione politica. È palese che la maggior parte dei sindaci firmatari appartenga alla sinistra. Ciò lascia presupporre che la loro opposizione all’autonomia differenziata sia dettata più da logiche di partito che da un’autentica preoccupazione per il bene comune. Se, infatti, qualche autorevole rappresentante di centrodestra si unisce alla protesta, spesso lo fa per ragioni interne al proprio schieramento, piuttosto che per un reale disaccordo con il principio in sé.
Non si tratta di difendere o attaccare l’autonomia differenziata, ma di criticare l’uso strumentale di ogni tema politico a discapito dell’interesse reale dei cittadini. Questo perpetuo gioco delle parti, che serve solo a promuovere il carrierismo personale e a destabilizzare i governi in carica, è un male che affligge tutta la partitocrazia italiana. In questo contesto, è lecito chiedersi se non sia giunto il momento di abbandonare i ragionamenti speculativi e di pancia, per adottare un approccio più costruttivo. L’attuale proposta di autonomia differenziata, promossa dal governo Meloni, include i Livelli Essenziali di Prestazione (LEP) come meccanismo di salvaguardia del principio di pari dignità territoriale. Tuttavia, viene da chiedere ai sindaci firmatari: nell’attualità, chi tutela davvero questo principio da Nord a Sud? La risposta è amara: nessuno. L’Italia continua a vedere un’emigrazione costante in cerca di lavoro, assistenza sanitaria e migliori opportunità.
Nei giorni scorsi mi sono occupato del tema delle privatizzazioni in Italia, attuate a partire dagli anni 2000 promosse principalmente dal centrodestra e avallate dal centrosinistra, portando a una serie di conseguenze significative per quanto riguarda i servizi pubblici. Politiche devastanti che hanno portato a conseguenze che molti considerano negative: Chiusura di strutture pubbliche: Molti ospedali, tribunali e stazioni ferroviarie sono stati chiusi, specialmente nelle aree meno economicamente sviluppate. Questo ha causato una riduzione dell’accesso ai servizi essenziali per i cittadini di queste regioni. Accorpamenti e sottodimensionamenti: In diversi casi, i servizi sono stati accorpati o ridimensionati, causando disagi e una riduzione della qualità del servizio. Aziende di Stato cedute in larga parte determinando incrementi dei costi nei confronti dei consumatori ( Enel, Telecom, Poste, etc etc). Queste misure hanno spesso favorito le regioni del Nord, già infrastrutturalmente ed economicamente più forti, accentuando il divario tra Nord e Sud. Il costo doveva rispondere alla relazione costo-beneficio: L’adozione di una logica puramente economica per l’erogazione dei servizi, in contrasto con i principi costituzionali che garantiscono l’accesso universale ai servizi essenziali, ha portato a situazioni di iniquità e discriminazione. Dove è stata la reazione delle istituzioni locali, dei sindaci, dei meridionali rispetto alle privatizzazioni? Diversi fattori possono spiegare questa mancanza di protesta, in particolare le pressioni politiche ed economiche: la classe dirigente del Sud spesso subisce forti pressioni sia politiche che economiche per conformarsi alle direttive nazionali, anche quando queste vanno contro gli interessi del meridione.
Matteo Lauria – Direttore I&C