Che Gemma di libro! L’anniversario di Alessandro Bajani rivendica il diritto di allontanarsi da qualsiasi violenza

E NON FA BENE, E NON FA MALE (DOPO 10 ANNI)

“L’anniversario” di Andrea Bajani (Feltrinelli) ha vinto la dodicesima edizione del Premio Strega Giovani e, come “L’età fragile” della Di Pietrantonio l’anno scorso, potrebbe bissare e portare a casa l’onorificenza più ambita (guida la cinquina finalista). L’autore, nato a Roma cresciuto a Cuneo e ora insegnante di Scrittura creativa all’Università di Houston, ha innegabilmente realizzato un libro coraggioso e affatto semplice da metabolizzare. Proprio per questo stupisce positivamente che una giuria composta da adolescenti ne abbia colto e riconosciuto la portata. Il superamento del tabù, particolarmente cattolico e italiano, di rimanere intrappolati all’interno di famiglie disfunzionali. Nessuna premeditazione per un atto razionalmente non formulabile: «Si può solo fare, e io lo feci, con quella ponderatezza definitiva che solo l’istinto (di sopravvivenza, ndr) conosce […] Deviai così la mia famiglia su un binario morto, in un giorno piovoso di dicembre». Frantumando il vaso di Pandora rimasto sigillato per otto lustri, l’eterna finzione e la ripetizione meccanica delle stesse parti e dinamiche.

La madre, la vittima (?), prima era una ragazza diversa, voleva studiare, poi, smarrito l’orologio da polso, arriva al primo appuntamento col futuro marito con una sveglia, per non tardare, e diventa un fantasma. Non è chiaro se la rinuncia alla vita sia l’origine o la conseguenza di questo incontro. Il padre, il carnefice, è autoritario, a tratti delirante, certamente iroso e manipolatore, raccatta amore col vittimismo. Il figlio, il mediatore, si sente in colpa quando non riesce ad evitare l’inevitabile (una caduta “accidentale” seguita a una spinta), a disinnescare la bomba come tante altre volte, a “prostituirsi” come gli rinfaccia la sorella invece di lottare congiuntamente contro il tiranno. A farsi funambolo tra il corpo del padre che sovrasta e quello della madre che si sottrae.

Sulla vita quotidiana di tutti incombe, costante, il senso di minaccia.

Ma, nel fatal giorno, il figlio, forse perché esausto forse spinto dai bizzarri ma proficui martedì mattina trascorsi in un appartamento al quarto piano di un palazzo di Torino, urla “No, basta!”.

Il titolo dell’opera rimanda, appunto, alla ricorrenza che, insieme allo sfascio di un’intera famiglia, celebra la liberazione che il figlio può raccontare solo adesso che è consapevole e fuori dal sistema. Per salvaguardare la propria salute mentale trovarsi ed Essere, ha preso le distanze, temporali e geografiche, da coloro che lo hanno messo al mondo.

Ora scrive, il figlio, e, parola dopo parola, ricorda e cerca di estrarre la madre dal monolite di una memoria familiare occupata interamente dal padre.

Perché la madre accettasse le sue relazioni extraconiugali, il padre la convinceva che fossero una “necessità esistenziale” e una garanzia che niente le sarebbe mancato e che lui non avrebbe mai abbandonato il nido. Il temporaneo impiego della madre come commessa in un supermarket era stato derubricato a “svago”, sarebbe stata un’onta se gli altri avessero creduto che il padre non fosse in grado di mantenere la famiglia! Deportata dalla capitale a una piccola realtà alpina, non ancora trentenne, la madre non era riuscita ad attecchire, il suo italiano «era una sassata contro il vetro del dialetto locale». Così aveva scelto di tacere, optando per una forma di qualunquismo che la teneva al sicuro. Non si sa come trascorresse le giornate, al tramonto si sedeva e ascoltava ciò che era successo agli altri. «Questo, in generale, credo fu uno dei grandi fraintendimenti tra i miei genitori: lui voleva che lei fosse niente per potere, lui, essere qualcosa, e lei voleva essere niente perché essere niente era almeno qualcosa. Il che forse più che un fraintendimento fu, in qualche maniera, un patto mai espresso, il loro segreto. Il risultato fu che lei si annullò per davvero, e che lui, con quel niente seduto sul divano, impilò astio, disprezzo e disperazione».

Più che di facciata (padre-padrone per la comunità, madre che comanda di fatto), «quello che mia madre viveva era un patriarcato differente, più vicino a un totalitarismo: mio padre teneva i conti, guidava l’auto, stabiliva le linee dell’educazione di noi figli, si occupava della nostra istruzione, e a lei restava la gestione spicciola del cambio letti, cucina e pulizie». Il patriarcato viene esasperato da una non diagnosticata patologia, declinato in una modalità ad personam. Il figlio rifiuta in toto l’eredità di un comportamento maschile inaccettabile, sostenuto e rafforzato da una legge culturale implicita.

Nelle ultime pagine il romanzo diviene saggio, ragiona, pone questioni (la diaspora giovanile nel mondo o il ridurre a famiglia ogni atto sociale e ogni spinta identitaria), rivendica il diritto di allontanarsi da qualsiasi violenza fisica e psicologica, anche la più intima e ingannevole che può sembrare “normale” o “funzionale”, anche dai vincoli di sangue.

Ho letto il libro in un pomeriggio, scorre quindi, nonostante alla perentoria fluidità letterale in qualche brano si preferisca un’articolata connotazione. «Scorporare mia madre da mio padre significa, letteralmente, sottrarla all’invasione con cui la figura di mio padre si è imposta sistematicamente al nostro immaginario, bruciandoci la retina con la fiamma ossidrica dell’affermazione vittimaria di sé, e compromettendo senza rimedio la visione».

Giovedì 3 luglio sapremo se “L’anniversario” si aggiudicherà lo Strega 2025.

Gemma

Gemma Guido LIBRO

Che Gemma di libro! ~ ogni domenica su I&C

Gemma Acri Guido è nata a Cariati e cresciuta a Rossano. Ha poi cambiato casa e paese più volte di quelle in cui si è lasciata tagliare i capelli.
Dopo qualche anno nelle scuole del Cuneese, ora insegna Lettere al Liceo artistico di Ciampino. In precedenza è stata corrispondente de “Il Quotidiano della Calabria”, editor e correttrice di bozze. Le piace mangiare (anche se non si direbbe!), andare al cinema, viaggiare e camminare. Crede che i suoi genitori l’abbiano ormai perdonata per aver trasformato la loro casa in una biblioteca. E che l’ironia, i cani e la poesia salveranno il mondo. Oltre alla lettura, naturalmente!

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